L'ITALIANITA' MUSICALE NEL PENSIERO E
NELL'AZIONE DI GIOVANNI TEBALDINI
Per meglio comprendere l’opera di
Giovanni Tebaldini1 volta alla propositiva riscoperta
della genialità musicale italiana, è opportuno rivisitarne il
pensiero e l’azione, supportati da citazioni.
In primo luogo
occorre rifarsi ai suoi studi, in particolare a quelli di paleografo,
al suo impegno nella riforma della musica sacra, al suo senso della
storia, ai suoi ideali artistici in rapporto alle tendenze di quel
tempo, alla sua moralità e onestà intellettuale e perfino alla
circolarità della sua attività e alla interdisciplinarità.
Un incoraggiamento a proseguire il
suo lavoro in questa direzione gli proveniva certamente dal
postulato verdiano “Tornate all’antico e sarà un progresso”2
e dallo spirito italico-popolare che aveva animato l’opera di
Giuseppe Verdi in sintonia con il Risorgimento. Non a caso, anche se
Tebaldini apparteneva alla generazione post-romantica e non sentiva
come altri il richiamo del melodramma di stampo ottocentesco,
difendeva la genialità del grande di Busseto, anche nei confronti
del suo rivale d’oltralpe, Richard Wagner, di cui peraltro egli
conosceva e apprezzava le opere ascoltate a Bayreuth nei mesi degli
studi ratisbonesi e, successivamente, all’annuale Festival
wagneriano. Inoltre, Nel suo ampio e profondo saggio su “Verdi e
Wagner”3, aveva analizzato e spiegato, con solide
argomentazioni, il perché la musica verdiana andasse condivisa e
apprezzata, mettendone in prima linea proprio l’identità di arte
tutta autoctona.
Dunque, egli avvertiva il
bisogno imperioso di riallacciarsi ai più puri ideali dell’Arte
attraverso le voci dei secoli passati. Il suo legame con la storia
era indotto dalla necessità di riappropriarsi delle “glorie italiche
remote”, che avevano contribuito a costruire le fondamenta della
nostra civiltà e mostravano una maturità e una qualità conosciute da
pochi. Ma con ciò non intendeva compiere una retorica operazione di
restaurazione o una mitizzazione acritica, bensì nutrire il
contemporaneo con un patrimonio storico-culturale, dal quale trarre
stimoli per andare avanti, nel momento in cui, in ambito religioso,
si avvertiva una dilagante profanazione nella scelta del repertorio
e, nel teatro, una sopravvalutazione dell’arte francese e tedesca a
svantaggio di quella italiana.
Così scrisse Giulio Confalonieri4
nell’articolo MUSICA –
Cose a posto, che uscì su
“7Giorni” (a. IX, n. 26, Milano, 26 giugno 1943); ripubblicato con
il titolo Omaggio a Tebaldini, in Bruciar le ali alla
musica (Rizzoli, Milano, 1945, pp. 256-62):
[…] Nel campo delle
resurrezioni musicali, dell’intuito profondo per i nostri tesori,
della adorazione senza fini nascosti e dell’ostinata volontà di
diffonderli, il caso di Giovanni Tebaldini si può chiamare più unico
che raro.
Questo musicista
oggi illustre […] può dirsi il solo in Italia che abbia pagato con
una specie di martirio la sua fanatica fede nell’antica musica
nostra. Le vicende di lui fra il 1890 e il ‘900 assomigliano a un
racconto di Defoe o di Verne. Allo stesso modo di Robinson e di
Cyrus Smith, Tebaldini viene sbattuto su una scogliera deserta, e
con pochi rottami di nave deve farsi una casa, provvedersi di armi,
cercare soprattutto di non perire, ossia, per stare in paragone più
esatto, di non lasciar perire la fiamma che lo brucia e ch’egli
intende di comunicare anche agli altri.
In quegli anni
lontani, ogni composizione non melodrammatica sembrava un attentato
all’integrità nazionale. Ogni musica che facesse a meno di un
soprano o tenore era considerata “musica di pensiero”; e siccome il
“pensiero” era stato messo a quarantena in Germania, chi fosse
sospetto di riportare in patria era una specie di untore, da
bruciarsi vivo e non meritarsi nemmeno la Colonna Infame in memoria.
Tebaldini, che per naturale destino s’era incontrato coi nostri
grandi maestri del Cinque e Seicento, pensò che, almeno in Chiesa,
fosse concesso di eseguire musica da chiesa. […] in San Marco a
Venezia, fu probabilmente il primo a far risentire Palestrina oltre
le mura di San Pietro, e a restituire a codeste esecuzioni una
fedeltà e un senso d’arte che anche in Roma esse avevano del tutto
perduto. […] l’ombra della Biblioteca Marciana lo invitava a nuovi
colpi di testa. Dormiva sotto la polvere il gran corpo glorioso
della Scuola veneta nelle sue tre incarnazioni perfette di musica
religiosa, di musica operistica e di musica istrumentale. Come un
Sigfrido in giacca e pantaloni, Giovanni Tebaldini squassò le porte
del recinto incantato e ne ritornò fuori con L’incoronazione di
Poppea del Monteverdi, con brani d’opere del Cavalli e del
Rovettino, dello Ziani e del Legrenzi, tutti da lui trascritti […].
I primi saggi importanti della nostra musica melodrammatica e dello
spettacolo allegorico-religioso, le due Euridice di Peri e di
Caccini e la Rappresentazione di anima e corpo di Emilio de’
Cavalieri, non sfuggirono, neppur esse, all’acuto sguardo di
Tebaldini. Non ci fu autor nostro che egli non esplorasse e non
facesse rivivere nell’esecuzione. Le “ultime terre” dei giorni
nostri, i due Gabrieli e il Frescobaldi, il Sammartini e Alessandro
Scarlatti, tutte, con estrema naturalezza, videro trenta o quarant’anni
addietro la vela di questo Caboto della musica.
Ma, non ancor
soddisfatto, Tebaldini, con pochi altri pionieri tra cui Lorenzo
Perosi e l’abate Guerrino Amelli, risalì su su verso le zone
incognite del Canto gregoriano e a soli vent’anni di distanza, con
mezzi mille volte inferiori a quelli dei “Ceciliani” tedeschi, poté
rivelare anche a noi quella perfetta immagine di civiltà romana che
è il “canto fermo”.
Fervore di studiosi,
iniziative di ogni genere e concreto incoraggiamento del pubblico ci
hanno oggi accomodati, confortevolmente, nell’uso della nostra
grande musica classica. A tal punto, che il dispendio di essa è
presso qualcuno, e qualche volta, una posa.
Ma noi dobbiamo
sapere, dobbiamo far sapere come non più di quarant’anni addietro,
eseguire musica antica in Italia fosse come rizzar barricate e come,
su codeste barricate, Giovanni Tebaldini combattesse già quasi ogni
battaglia possibile. Riportandone ferite, allora, assai più che non
gloria.
Mentre l’insigne
maestro, non piegato da una vita lunghissima, sta finendo di
scrivere un volume su Palestrina [rimasto inedito] frutto di lunga
consuetudine con le opere di Pierluigi, mi è parso utile di metter
le cose un po’ a posto. La storia non mi piace; ma mi piace, ogni
tanto, di fare lo storico.
L’italianità di Tebaldini, in
sostanza, parte dalla militanza teorica e pratica in favore della
riforma della musica sacra, con la riproposta del canto gregoriano e
della polifonia vocale; dall’esigenza di contrastare certe
degenerazioni in atto e, perciò, di difendere la funzione spirituale
della vera musica e i valori atemporali. Proverbiali le sue
polemiche con quanti non osservavano i canoni classici nelle
composizioni liturgiche, ad iniziare dal suo professore di organo al
Conservatorio di Milano, Polibio Fumagalli5, Gounod6
e altri, tra cui certi religiosi conservatori del cattivo gusto.
Per avere maggiore popolarità e una
carriera più facile, Tebaldini avrebbe potuto cedere alle lusinghe
del Romanticismo e praticare il melodramma in auge, invece scelse
l’ardua via del rigore, della specificità, delle riforme e della
“riviviscenza della tradizione” con i “Concerti storici”, iniziati
fin dal 1891 a Venezia e proseguiti a Roma, Napoli, Milano, Bologna,
Ravenna e altrove. Si era prefissato di togliere dalla polvere degli
archivi partiture completamente ignorate perfino dagli addetti ai
lavori, intravedendo in esse la strada maestra per un’evoluzione
musicale7. Quindi, non puntava a meravigliare con
trasgressioni più o meno esteriori, ma piuttosto con l’innovazione
ispirata alla classicità in una visione etica e poetica dell’arte
musicale.
Tale ideologia si
ritrova anche nelle sue composizioni, che tendono al lirismo
religioso pervaso di profonda umanità; sono meditate, ma non al
punto di reprimere gli impulsi interiori e l’estro melodico. In
altre parole, esse non scaturiscono da uno sperimentalismo fine a se
stesso: si avvalgono della sapienza tecnica, ma evitano gli
schematismi e, nel contempo, il sentimentalismo. E tutta la sua
poliedrica attività è strettamente legata alla propria esistenza e
alla concezione dell’arte musicale che, secondo lui, doveva tendere
all’elevazione spirituale. Per questo non aderiva a formule
impersonali e a mode culturali. Si sentiva investito di una missione
e le dedicò l’intera vita. Seguiva un preciso indirizzo, maturato da
acute intuizioni, seri studi e valide motivazioni. Si può dire che
sia stato un illuminato autore ‘presente’ nel suo tempo con una
coscienza storica. Era un creativo puro, indipendente dal sistema
socio-politico. La sua italianità, infatti, è confinata nell’ambito
artistico-intellettuale-spirituale. Chiaramente, acquistava una
valenza nazionalistica nel momento in cui vantava i valori
inconfutabili delle nostre ricchezze artistiche.
In una conferenza
del 22 marzo 1941 su “La tradizione musicale”, tenuta presso
l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia8, egli
condensava così le sue idee:
[…] Tornare
all’antico? “Ma la musica è andata innanzi: ha progredito
sempre!”. Chi parlava in questa guisa erano coloro i quali,
ignorando gli antichi maestri – oppure conoscendoli soltanto di nome
– erano rimasti fissi all’ottocentismo della decadenza.
Vennero poscia gli
avanguardisti: gli arditi novecentisti i quali, buttando tutto in un
fascio, gridarono i loro anatemi contro lo stupido Ottocento.
Questo si lesse! Della tradizione – che non si spezza – essi,
in un primo tempo, non vollero tener conto. “Ma che tradizione:
vita nova incipit ab ego!” andavano ripetendo individualmente i
nuovi arrivati, perché ognuno pretendeva di possedere la lapis
angularis su di cui poggiare la nuova Arte. Ma poi si accorsero
di essere su falsa strada e di non poter erigere i pretesi nuovi
sistemi basandoli sul diniego della tradizione, se la stessa più
moderna filosofia dell’Arte ne riconosceva nella storia l’importanza
assoluta. […]
Ed allora, quasi
d’improvviso, la tradizione divenne campo di speculative indagini
pur da parte dei negatori di ieri; i quali poi - moderni
rabdomanti – pretesero riservato a sé tutto ciò che per loro… virtù,
sembrava scaturire dal Sinai ultrasecolare dal quale essi credevano
propagare il loro verbo.
Senonché la verità
era, ed è, un’altra. Sì, perché – meminisse juvat. A questo
caso, sin da settant’anni addietro, Giuseppe Verdi, con intuito
profetico, aveva detto: Torniamo all’antico e sarà un progresso.
Alcuni fra i
giovani musicisti di azione di quei lontani primi anni, comprendendo
l’intimo significato della esortazione verdiana, si proposero sin
d’allora di tradurla in pratica cercando realizzarla in forma viva e
concreta.
Storiografia e
critica, in Italia, erano appena incipienti; battevano la propria
strada, ma dottrinalmente, e quasi empiricamente. Dell’altro
occorreva compiere per arrivare alla resurrezione de la nostra
musica. Anzitutto occorrevano, non soltanto interpreti in possesso
della tecnica scolastica e di una tal quale esperienza direttoriale,
ma altresì docenti dotati delle qualità necessarie alla formazione
ab imis di elementi che, in quel momento, non esistevano:
elementi i quali fossero atti alla esecuzione delle opere che si
intendevano far rivivere corpo ed anima. […]. Verso il 1882,
a seguito delle feste centenarie celebrate in onore di Guido
d’Arezzo, per opera di pochi che agivano appartati, si iniziava in
Italia attiva propaganda in favore della restaurazione della musica
sacra nelle Chiese, fissando a modello la polifonia vocale
cinquecentesca che si mirava di far risorgere nella sua ideale
purezza. Dapprima siffatto movimento, pel suo stesso carattere
ambientale, passò quasi inavvertito: specie nelle zone – e qui
c’entrò anche la politica – le quali premevano trovarsi
all’avanguardia della vita musicale cui l’arte sacra sembrava non
meritasse di penetrare. Da esso invece – a mano a mano – generarono
altre iniziative congeneri ampliantesi sino a portarsi sul terreno
della musica da camera, della quartettistica e sinfonica; infine su
quella della Cantata, dell’Oratorio e della stessa
Opera teatrale.
Ma allora occorse
anche vincere e superare il pregiudizio fondamentale: quello cioè
che portava a considerare la musica dei secoli passati – canto
gregoriano compreso – come appartenente a forme di arte iniziali, e
perciò – in linea estetica – al dire degli eterodossi – totalmente
superate. Si studiavano sì, da pochi, le opere degli antichi dal 400
al 700, ma soltanto per discoprire in esse i segni della graduale
evoluzione dell’arte medesima. Erudizione per conseguenza:
null’altro.
Partire, sin dai
primi tempi e dai primi esempi da un criterio di giudizio, dirò
così, oggettivo – non relativo, ma assoluto – non si
voleva ammettere. Lo stesso Palestrina, da parte di chi lo conosceva
soltanto attraverso le pagine della storia, veniva considerato quale
un sorpassato, né suscettibile di vita trascendente. Ma, obiettavano
gli altri: “possibile che nelle epoche di maggior splendore per le
arti figurative, architettoniche e decorative – nel periodo del
grande Rinascimento – rappresentasse la musica null’altro che il
segno di una manifestazione esteticamente inferiore? Errore
fondamentale della storia, sembrava a noi questo. Eppure lo si
bandiva assiomaticamente dalle stesse cattedre ove insegnavano
musicisti e musicologi di bel nome; non però nelle condizioni di
sapere e di poter scrutare – vivificando – oltre il pentacordo della
carta scritta o stampata, e di comunicare realmente con
l’anima dell’arte antica.
Procedo in alcuni
rilievi per ordine storico.
Il superbo
polifonista sivigliano Cristoforo Morales, vissuto nella prima metà
del 500 aveva pur ricevuto l’afflato ideale. Il nostro grande
Palestrina e l’amico suo Tomaso Lodovico da Vittoria (altro
spagnuolo), dettando a Roma le loro immaginate e potenti creazioni,
indubbiamente si erano soffermati innanzi al Pinturicchio delle Sale
Borgia e al Perugino di Santa Maria della Vittoria. Essi, con un
fervore e una rapidità che ancora oggi sorprendono e meravigliano,
crearono le loro opere, tuttora pulsanti di vita, a fianco di
Raffaello, di Michelangelo, di Bramante e di Andrea del Sarto. A
Venezia Iacopo Robusti, il Tintoretto, intratteneva Giuseppe
Zarlino, teorico e compositore, anche con scritti esponendogli i
suoi criteri intorno alla potenza della musica, e lo Zarlino a sua
volta, corrispondeva, anzi discuteva, coll’immortale animatore della
Scuola di San Rocco e della Sala del Gran Consiglio, contrapponendo
le proprie vedute in ordine estetico a riguardo delle concezioni
pittoriche dell’amico celebrato.
A Monaco di
Baviera e a Norimberga, Orlando di Lasso – il Palestrina del Nord –
aveva pur avvicinato, ed in diverso campo, si era pur misurato con
Albrecht Dürer.
Ancora a Venezia i
due Gabrieli, Andrea e Giovanni – zio e nepote – entrando in San
Marco si erano sentiti ispirati nel contemplare i mosaici disegnati
dalla fantasia immaginosa di Tiziano e di Paolo Veronese, del pari
che innanzi ai bronzi e ai fregi marmorei della Loggetta del
Sansovino. Ah quell’Angeli et Archangeli di Andrea, e quel
Surrexit Christus pasquale di Giovanni (che noi abbiamo
fatto rivivere sotto le dorate cupole della Marciana), di quanto
fulgore sono essi aureolati!
Luca Marenzio, detto
per antonomasia il dolce cigno, a metà del secolo XVI si
partiva da la terra bresciana per recarsi a Roma a compiere la serie
de’ suoi Mottetti e de’ suoi Madrigali, illuminata la
fronte dalle vivide luci che si diffondono dalle tele del Savoldo,
del Moretto e del Romanino.
Marco Antonio
Ingegneri – il Maestro di Claudio Monteverdi – ne’ suoi
Responsori che commentano la Passione del Redentore parve
persino rivaleggiare col Mantegna del Cristo Morto nella Cattedrale
di Cremona; lo Stabile e Gesualdo da Venosa, l’audace madrigalista
che sembra presentire le tragiche concezioni del Caravaggio, nel
centro della vecchia Napoli, a San Domenico ai Gerolamini, a San
Paolo, a Santa Chiara, a San Pietro a Majella avevano indubbiamente
incontrato e discusso di arte col Solimena e con Luca Giordano e con
Mattia Preti.
Come pretendere
adunque di circoscrivere la musica dei secoli XVI e XVII nei confini
di un’arte iniziale, avulsa dal grande movimento della rinascenza,
rivelatasi soltanto in potentia, se essa era arrivata a tale
grandezza da poter camminare pari passo a fianco di tutte le altre
arti? Per noi italiani basterebbero due sole figure immortali nella
storia e nelle opere – Palestrina e Monteverdi – smentire le troppo
facili asserzioni dei musicologi delle prime ore mantenutisi nei
limiti approssimativi, perché impossibilitati a penetrare
realmente nelle opere d’arte, magari anche diligentemente
elencate e classificate, ma nella loro anima rimaste completamente
ignorate. Ecco perché la conoscenza della nostra antica musica –
quella di cui Verdi auspicava la resurrezione – si sarebbe mantenuta
allo stato di semplice, virtuale aspirazione, come ho già detto, se
alfieri dell’idea, in condizioni di poterla realizzare praticamente
e spiritualmente, non si fossero resi capaci di operare onde
raggiungere un risultato concreto e positivo.
Per arrivare a
questo fatto preliminare, si imponeva quello di affrontare la dura
fatica di creare o di preparare gli elementi atti alla
interpretazione delle singole opere prescelte. Cominciarono così ad
organizzarsi pure da noi nel campo della musica sacra, e con risorta
denominazione antica, le cosidette “Scholae Cantorum”.
A Parigi una
siffatta istituzione ebbe i suoi inizi nell’accogliente dimora di
César Franck (il grande César Franck) e nella Chiesa dei celebri
organisti Couperin, Saint Gervais, per divenire poscia con Vincent
d’Indy e Charles Bordes, quella Schola Cantorum che sino a ieri ha
rivaleggiato con il Conservatorio Nazionale di Musica Francese.
A Venezia nel marzo
del 1891 la Schola Cantorum della Marciana, dopo un solo anno di
preparazione e di studio riusciva ad offrire al pubblico un primo
Concerto Storico9.
Compilato con
criteri storico-cronologici, con esso mi proposi illustrare la
Scuola Veneta che – dalle volte aurate del magnifico San Marco – ero
stato chiamato a resuscitare precisamente col proposito di
tornare all’antico.
[…] Come sotto le
ali benefiche del Leone alato, per le più eroiche imprese si erano
animati i più grandi Condottieri e gli intrepidi Capitani chiamati
dalla province lombarde, così la Scuola Musicale Veneziana, per due
secoli, e per opera di maestri bresciani, cremonesi e bergamaschi si
alimentava e si fecondava nel modo il più abbagliante e seducente. A
queste fonti si doveva tornare e si è tornati. Né soltanto facendo
rivivere le opere antiche, bensì ancora appoggiandosi alla
concezione estetica dei maestri che tali opere seppero creare.
Verdi lo aveva
anticipato e il suo profetico auspicio si è realizzato.
Fin dal 1916,
nell’articolo Torniamo all’antico (“L’Orifiamma”, Ferrara, a.
IX, n. 17-18-19), egli aveva puntualizzato alcuni concetti:
[…] È opinione
diffusa da un’imperfetta conoscenza dell’arte nostra cinquecentesca
e secentesca, che la musica antica contenga in sé un interesse
puramente archeologico e formale, né che per il suo valore estetico
e per le sue qualità passionali possa più destare interesse veruno.
I grandi Mottetti di Palestrina; le Arie di De’
Cavalieri, di Peri e di Caccini; i Madrigali di Monteverdi;
le Fughe di Frescobaldi che da ogni parte vanno risorgendo,
stanno a provare quanto sia errato simile giudizio e sia ingenuo
apprezzamento, che noi saremmo quasi tentati di chiamare povertà
di critica.
[…] Per la musica
[…] si confusero epoche, stili, atteggiamenti, espressioni in un
arruffio di false impressioni, e tutto dimenticando, vivendo come
alla giornata, l’arte italiana – anche quando credettero pretese di
emanciparsi dalla egemonia straniera – si buttò mani e piedi legati
in braccio alla scuola francese (Gounod e Massenet) dapprima; poi
alla tedesca (Wagner); indi di nuovo alla francese e tedesca (Debussy
e Strauss) per fare oggi dedizione alla novissima musica russa (Stravinsky)
impregnata di materialismo oggettivo sino alla volgarità.
Fortunatamente non
tanto i compositori e gli esecutori si sono convertiti all’arte
italiana tradizionale – rimasta per tanto tempo occulta ed ignorata
- e di cui avrebbero potuto valersi per erigere su solide basi
l’edifizio nuovo - tempio sacro alla storia avvenire dell’arte
nostra – quanto il pubblico sincero e vergine, trascinato sin qui
sulla via falsa di un male inteso eclettismo cosmopolita, sensuale e
pervertito.
Ovunque le musiche
nostre genuine hanno risuonato con la voce dei secoli nell’anime
vibranti di poesia e dappertutto la commozione si manifestò
profonda, incancellabile.
[…] Valga il monito
verdiano a ricordare – per nostro tardo ravvedimento – che tutte le
Opere dell’immortale di Palestrina apparvero nell’ultimo
trentennio stampate e ristampate magnificamente per iniziativa di un
editore di Lipsia e sotto la protezione e con l’aiuto del Ministero
della P. I. tedesco; che pur di recente i Melodrammi
italiani del ‘600 ritornarono in luce in una splendida edizione
viennese sotto il titolo di Denkmaler der Tonkunst in Oesterreich!!
Capiscono gli italiani il significato di questi fatti? I capolavori
dell’arte musicale italiana, dimenticati dagli italiani stessi,
divenuti, dopo secoli di vita monumenti della musica in
Austria! Non ce n’è abbastanza per sentirsi vergognati ed
umiliati? E non dovremo non sentire in oggi il dovere di riparare
con ogni energia e con viva fede, alle mancanze deplorevoli verso
l’arte nostra cui la dedizione all’arte straniera ci ha condotti
insensatamente?…
[…] De’ Cavalieri e
Peri ad oltre tre secoli di distanza evocati dalla voce popolare là
dove il fastigio dell’arte italiana nelle sue più svariate
estrinsecazioni ha lasciato traccie così nobili, impresse orme sì
profonde, parvemi – fra tante volgarità incombenti, sul teatro in
ispecie – fatto tanto significativo da sollevare l’animo alle più
liete speranze per l’avvenire dell’arte italiana. Dire che il
pubblico italiano non è fatto per comprendere le bellezze della
musica italiana; che le nostre maggiori opere musicali, solo
perché lontane da noi di tre secoli sono invecchiate e non
posseggono più alcuna virtù suadente, ma soltanto qualche pregio
frammentario di bellezza archeologica e sorpassata, è calunniare il
pubblico nostro, è misconoscere la potenza dell’arte, è confessare
la nostra inferiorità spirituale, la nostra deficienza
intellettuale, e quindi dar ragione a quelle nazioni straniere le
quali, come ho ricordato più sopra, si sono messe in condizione –
umiliante per noi – di atteggiarsi a tutrici del nostro patrimonio
ideale, di quel monumentale patrimonio artistico che sorse, visse e
prosperò in Italia e che dall’Italia si diffuse pel mondo. Vorremo
noi, per infingardaggine, permettere più oltre questa confisca
intellettuale della nostra gloria passata?
Ammettono i meno
indifferenti che la nostra musica va rimessa in luce onde sia
possibile riallacciare il filo dell’arte moderna a quello della
tradizione antica: è molto, ma non è tutto. Ammettono questo i più
intelligenti, ma soltanto quale funzione didattica da riservare con
criteri razionali ai Conservatori a scopo di coltura. Errore
madornale, o signori, perché non furono né la grammatica, né il
trattato di contrappunto che diedero vita all’arte, sibbene l’opera
d’arte che generò la regola, la teoria, e che eresse
la scuola. Errore madornale, ripeto; perché non sono i
procedimenti armonici strumentali, né le formazioni melodiche –
sebbene di esse siano cosparse – che si debbono ricercare nelle
opere antiche, bensì la forza espressiva, il colorito, la
passionalità stessa; in una parola la portata estetica e soprattutto
l’anima che le sorregge.
Questo deve
giustificare e suggerire l’esecuzione costante dei nostri capolavori
innanzi al pubblico e per il pubblico capace di elevarsi – ne ho
piena fede – al di sopra delle volgarità e fuori delle nebulosità
cui sino a ieri è stato asservito.
[…] Questo fascino
che la musica antica esercita su noi pochi da un trentennio a questa
parte, mentre ci lasciammo pur trasportare e più volte peregrinammo
verso il colle di Bayreuth, va penetrando oramai anche nell’anima
dei giovani.
Dopo tante
elucubrazioni filosofiche, dopo tanta retorica generata dal
modernismo di Strauss, di Debussy e dei compositori russi più in
voga; dopo le volate metafisiche che vanno da Nietzche a Gabriele
D’Annunzio, la Fede nostra che fu sempre una e consentanea, né mai
patì tentennamenti o dubbi, vede entrare finalmente nella propria
orbita astri, pianeti e satelliti del firmamento musicale italiano
che sino a ieri indifferenti alle nostre nozioni d’arte, perché
insofferenti, rumorosi, turbolenti contro ogni genere che non fosse
inspirato al futurismo catastrofico od al modernismo astratto. Oggi
anche costoro sono del tutto persuasi forse della via sino ad ora
battuta, cercano, scrutano, osservano pur dietro di essi,
avvicinandosi a noi e promettendo dedicare le loro giovani energie
alla resurrezione positiva e pratica dell’arte rivelatasi grande
attraverso i secoli.
Laus Deo!
Ripeto anch’io con Emilio de’ Cavalieri e… sursum corda!
L’Italia musicale ha bisogno di ritrovare se stessa!
L’anno precedente, nel pieno della prima guerra mondiale, Tebaldini
aveva sentito il dovere di prendere posizione scrivendo a D.
Costantini, direttore della rivista “Arte Cristiana”, per
risvegliare negli italiani, soprattutto in quelli che occupavano
posti di prestigio e di potere, la fiducia e la consapevolezza nella
propria dotazione intellettuale. Il Costantini pubblicò la
“nobile e fiera lettera […], perché
essa tocca il grave problema della nostra coltura, fin qui troppo
remissivamente mancipia dello straniero: è un grido di libertà, un
incitamento a non dimenticare – dietro la conquista dei territorî –
la necessità e il dovere di far seguire quell’altra conquista, nei
dominî dello spirito, che riaffermi il genio della nostra gente, la
libertà e l’italianità della nostra arte”.
Ecco il testo
della lettera di Tebaldini:
Dove ha tuonato il
cannone si levi anche la nostra voce per dimostrare il carattere
italiano di tanta arte e della tradizione in codesti paesi fatti
credere piegati alla scuola tedesca. Bisogna abbattere l’assurdo di
quelle deduzioni storiche che si eressero sul fatto di aver lavorato
i nostri grandi artisti per la monarchia degli Asburgo, facendo
nascere la stupida leggenda che essi appartengano all’Austria e che
l’arte loro appartenga di diritto alla storia dell’arte austriaca
[…] e così si contribuirà efficacemente a far tornare la coscienza
del proprio essere a popolazioni forse immemori per il lungo
servaggio.
Indubbiamente
Austria e Germania hanno avuto l’accortezza, o l’arte di governo, di
favorire – a loro modo – l’arte e gli artisti, la scienza e
le lettere che potevano germinare dal pensiero e dall’anima degli
irredenti, cercando piegare a sé la corrente degli studiosi più
eminenti. E poiché vano sarebbe stato bussare alle porte nostre,
molti si accontentarono di accettare la protezione che loro veniva
offerta. Da ciò ne conseguì l’intedescamento attuale od almeno
l’intorpidimento dell’anima nazionale italiana in codesti paesi.
Cosa ha fatto l’Italia per impedire questa snaturalizzazione etnica
delle regioni irredente? Cosa all’ingiuria che si veniva compiendo
ai danni della storia? Nulla. E se oggi l’eroica audacia dei nostri
non avesse vinto per altri elementi, noi ci saremmo addormentati per
sempre fino a lasciar occupare il nostro Lago di Garda da una folla
di Herrn o di Frauen […]. Così avvenne che […] Austria e
Germania potevano darsi la mano nel favorire opere d’arte italiane
che noi mandolinisti (dicevano essi) non conoscevamo né potevamo
dare in luce. Per tal modo passarono alla storia le nostre migliori
opere quali monumenti dell’arte musicale in Austria od in Germania.
[…] Ora a me sembra
sia questo enorme inqualificabile errore che occorra correggere
cominciando precisamente dai paesi e dalle anime redente.
[…] Quante cose
vorrei dire a questo proposito. Ella mi ricorda che inter arma
musae silent. Ebbene, con tutto il rispetto per chi ha
pronunciato questa sentenza, io mi permetto di ricordare che così
non la pensavano i Greci antichi, né gli Egizi né i Romani
dell’epoca buona. E senza andare tanto lontano, non così credettero
i Veneziani, che Lei deve sentire ed amare al pari di me, che,
bresciano di nascita, mi sento tanto legato alla tradizione della
Regina dell’Adriatico; non i Fiorentini in guerra, non i Genovesi,
non i Pisani, gli Amalfitani, i Siculi e tutti gli altri popoli
d’Italia. Non così sentì e praticò Napoleone I che in brevi anni
sconvolse il mondo non soltanto in battaglie grandiose, ma
precisamente nello stesso ordine sociale. Infatti fu sul campo di
battaglia che egli decretò l’istituzione di tante Scuole e di tante
Accademie, di teatri e di Pinacoteche.
[…] Ma quante cose
belle, caro Professore, si potrebbero dire e mettere in luce: quanti
ammaestramenti trarre dalle stesse violenze degli ormai palesi
nemici, non soltanto nelle armi, ma pure nell’ordine spirituale ed
intellettuale.
[…] ai nostri
maggiori vorrei dire: l’eroismo suscitato dalla bella guerra è una
grande rivelazione di virtù, di energia morale… ma non è tutto.
Salviamo all’Italia il suo patrimonio morale: quello che l’ha
guidata attraverso i secoli: che le ha permesso di esistere tutta
intera nell’anima del mondo anche quando i nemici suoi l’avevano
dilaniata. Prendiamo esempio dai stessi nostri nemici : essi si
affermarono non soltanto con la disciplina delle armi, non soltanto
coi commerci, con le industrie, con le banche: essi mandarono a noi
perché ci ubriacassimo – facili noi all’esaltazione – i musicisti, i
pittori, gli scultori, gli architetti, i poeti, i commediografi. E
noi quasi sempre bevemmo grosso. Lasciamo i maggiori. Fui e
sono adoratore di Bach, di Beethoven, di Wagner; ma tutto il resto
venuto poi, buttato sul mercato nostro a danno delle nostre
tradizioni e dei nostri migliori artisti, non lo dovevamo tollerare.
Quindi, chi può, pensi e ricordi che una sacra fiamma arde da secoli
sull’altare della Patria e che il non tenerla viva significherebbe,
domani, una nuova minaccia di invasione nordica e di barbarie.
È necessario adunque
compiere costì una assidua costante propaganda spicciola e fervida
di italianità; far sentire a tutti il fascino di quella Italia vera
e migliore che si agita poco lungi dai paesi redenti; di quell’Italia
che fu tanto calunniata ma che sente desiderio imperioso di
rigenerarsi e di purificarsi non soltanto pei sacrifici di sangue
già eroicamente compiuti, a chi sappia e voglia ricordare che Atene,
Roma, Venezia, Firenze, Pisa e Genova rimasero grandi attraverso la
storia pei loro eroismi bellici, ma ancora per le loro virtù
intellettuali e spirituali.
Tebaldini si era posto l’obiettivo,
indotto da motivazioni ideali e dall’esperienza, di far conoscere ai
giovani l’antica musica italiana fin dagli anni dell’insegnamento e
della direzione del Conservatorio di Parma10.
Nelle Note illustrative,
esposte e pubblicate in occasione della 1a
Esercitazione pubblica degli alunni (2 giugno 1898) - in cui fu
eseguita musica del secolo XVIII, con pezzi di Bassani, Scarlatti,
Zipoli, Marcello, Vinaccesi, Lotti, Tartini e Galuppi - si legge:
La ragione pratica
delle esercitazioni in cui si studi con criteri razionali la musica
antica, per una scuola pari alla nostra dev’essere soprattutto
didattica.
Far conoscere i più
insigni compositori d’altro tempo, e non freddamente dalla sola
classe di storia, ma spiritualmente per le opere loro, è una
necessità che in un Conservatorio viene in oggi logicamente
reclamata.
In diversa guisa
appare ben difficile che agli alunni possa essere consentito
d’imparare a conoscere le creazioni dei maestri d’altre epoche, e
neppure di poter studiare nelle loro vere origini le diverse forme
di cui s’abbella la più ideale delle arti, e si onorano le diverse
scuole che la illustrarono.
E prosegue spiegando come sia più
facile per gli studenti di letteratura o per quelli di artistica
entrare in contatto con le opere del passato, mentre il compito è
decisamente più arduo per la musica che presuppone assistere ad
esecuzioni o addirittura impegnarsi in prima persona in esse:
Le pagine preziose
degli antichi, pur studiate al tavolo, se non vengono animate
dall’esecuzione, restano inesorabilmente privilegio di pochi e
passano, nella storia, quasi direi dimenticate. […]
Conscio di questa necessità e per
dovere morale, volle promuovere altre esercitazioni storiche,
dedicandole soprattutto agli alunni, chiaramente divise per epoche e
per scuole, in modo da contribuire all’educazione storica ed
estetica dei giovani:
E poiché le nostre
esercitazioni avranno di mira, soprattutto, lo studio intimo delle
diverse gloriosissime scuole italiane che ancor oggi in una
rinascenza feconda fanno amare ad altri popoli il caro nome
d’Italia, io ho fiducia sorga presto l’alba di quel giorno felice in
cui le vere tradizioni nostre saranno, non più fraintese né
sconfessate dagli italiani stessi, ma religiosamente propugnate ed
ardentemente sviluppate.
Successivamente, mentre attendeva
all’applicazione del motu proprio emanato da Papa Pio X, in
“Idealità lontane” - articolo apparso su “Cronache musicale e
drammatiche” del 4 febbraio 1904 - affermava:
[…] in quelle
melodie da tredici secoli palpita ininterrottamente tutta una
vitalità musicale rimasta troppo a lungo ignorata alla maggior parte
dei cultori delle stesse discipline musicali.
[…] Ed è altresì
studiando l’arte italiana, non come semplice fatto storico, ma nelle
sue qualità intrinseche, curandone l’esecuzione ordinata e
razionale, che si potrà riuscire a stabilire nel concetto dei
cultori, dapprima, e del pubblico, poi, l’importanza reale di talune
riforme che la leggenda consacra quali conquiste di altri popoli,
mentre, nel loro fondamento, appartengono sempre al dominio
dell’arte nostra.
Se ci facciamo a
considerare musicalmente la riforma luterana, la riforma
melodrammatica fuori d’Italia, le nuove tendenze dei clavicembalisti
e degli organisti attraverso i due secoli meravigliosi – il XVI ed
il XVII – noi vediamo che dappertutto ed ovunque è sempre l’arte
italiana che trionfa, che domina e che aggioga, preparando o
sviluppando nei diversi paesi d’Europa nuove tendenze.
[…] Per riparare
alle conseguenze funeste recate dallo stato di deplorevole abbandono
in cui è lasciata la coltura artistica degli italiani – il popolo
artista per eccellenza – non potrebbesi trovare miglior mezzo
all’infuori dell’insegnamento progressivo e pratico delle discipline
musicali, a cominciare dalle scuole primarie per giungere, grado a
grado, alle secondarie e normali; infine, alle stesse Università?
Tale insegnamento ordinato a preciso scopo didattico, coll’intento
chiaro e determinato di ampliare la coltura artistica generale della
nazione, dovrebbe riuscire senza dubbio a preparare un avvenire di
migliore e più perfetta idealità, di più sane ed elevate aspirazioni
artistiche e morali.
Troverà l’Italia un
Ministro capace e volenteroso al punto da poter comprendere ed
attuare, in questo campo, quella trasformazione educativa che,
accolta e praticata dalle nazioni più civili d’Europa, ormai
s’impone anche ad essa, per sentimento di dignità e di amor proprio,
come per debito di gratitudine verso quei grandi che nel passato la
onoravano per tutto il mondo?
Auguriamoci ancora,
ed auguriamoci sinceramente che alle sagge ed illuminate iniziative
altra volta caldeggiate dagli onorevoli Gianturco e Panzacchi, possa
esser feconda una fiamma che ridoni gli antichi bagliori al
firmamento dell’arte nostra.
Ma a Parma Tebaldini non fu
compreso, perché voleva attuare riforme sostanziali, una didattica
moderna, basata sulle esercitazioni pratiche e sulla cultura
multidisciplinare; perseguire la formazione integrale della
personalità degli allievi. L’istituzione della classe speciale di
canto gregoriano e polifonia vocale, non fu da lui voluta e tenuta
perché vicino al mondo clericale, né, tanto meno, perché era un
reazionario. Rientrava nella convinzione che lo studio degli antichi
maestri fosse efficace nella didattica moderna perché serviva a
formare il gusto, a dare solide basi culturali, a penetrare
quell’italianità tanto decantata da Giuseppe Verdi che, per essere
compresa, richiedeva conoscenze non solo teoriche, ma soprattutto
pratiche11.
Egli ben ricordava ne’ I nemici
italiani della musica italiana (“Giornale d’Italia”, 21 ottobre
1915), come al Conservatorio di Milano, da lui frequentato, nessuno
dei suoi maestri avesse mai accostato gli studenti, per esempio, al
veneziano Zarlino12 che aveva dettato:
[…] monumenti di
sapienza musicale quali le Instituzioni harmoniche (1558), né
il Francesco Callegari che col Tartini e col P. Vallotti […] fu
iniziatore di sistemi nei quali si potrebbe rintracciare il germe
delle più recenti conquiste nel campo dell’armonia. Non certamente
venne ricordato il P. Martini bolognese, pel magnifico Saggio di
contrappunto fugato, né l’allievo suo P. Paolucci, maestro in
Assisi, per quell’Arte pratica di contrappunto che in una scuola
italiana non avrebbe dovuto essere occultata né ignorata. Neppure mi
incontrai allora con un solo insegnante capace di lasciar
intravedere ai propri allievi l’intima, profonda grandezza dei
nostri sommi compositori apprendendo a’ suoi discepoli – poiché
sperare nell’esecuzione sarebbe stato un sogno irrealizzabile – a
decifrare e ad interpretare, nel dedalo delle vecchie
partiture, i melismi superbi che con tanta dovizia di inspirazioni
adornano ed illuminano di luce immortale le opere giganti di quei
colossi.
[…] Ormai questo
criterio archeologico, nella rievocazione dei grandi maestri del
passato, è stato superato. Noi intendiamo rivivere della vita d’un
mondo che non ha limiti di tempo, né confini di spazio, né barriere
spirituali di epoche considerate – dall’arida scienza – come
sorpassate. Non desiderio di cultura, né ostentazione di dottrina ne
sospingono. È l’anima del passato che noi cerchiamo di scrutare, di
intendere e di immedesimare con la nostra per trasfonderla, vibrante
della sua passione, in chi ci ascolta. …Come quando ci mettiamo
innanzi ai dipinti di Giotto e di Beato Angelico; di Tiziano o di
Tintoretto; di Pinturicchio o di Mantegna; del Luini o di Leonardo;
di Michelangelo o di Raffaello; così innanzi ai musicisti cui
andiamo accostandoci – da Palestrina a Carissimi; da Gabrieli a
Lotti; da Frescobaldi a Scarlatti (parliamo di quelli cui ne è
toccato in sorte di poter infondere momenti di riviviscenza) –
vogliamo intendere il linguaggio arcano della loro anima. Nelle loro
concezioni spirituali noi non iscorgiamo un’arte primitiva
allo stato incipiente di formazione; noi sentiamo un’arte arrivata
alla sua più ideale perfezione, al suo più alto grado di espressione
del pari che per tutte le altre arti le quali resero grande il
nostro passato dal Medioevo al Rinascimento […].
Il Maestro, nel
1942, a quasi ottant’anni, si mostrava sempre fedele ai princìpi che
aveva saputo sviluppare e trasmettere. In sette puntate, apparse sul
quotidiano “L’Italia”15, aveva ricostruito tutto ciò che
era stato fatto, con tanto di luoghi, nomi e date, “per la
resurrezione de la nostra musica”.
Sempre in
quell’anno, per la “Rivista Musicale Italiana” di Bocca (a. XLVI,
fasc. IV), in una ventina di pagine dense di memorie, aveva
dato i “rendiconti”. Tra l’altro riportava la seguente affermazione
di Domenico De’ Paoli16:
Allo studio degli
antichi venne ad aggiungersi la rinascita della musica liturgica che
portò come conseguenza una rifioritura di studi sul canto
gregoriano, ed infine, ultimo, ma non meno importante, il contributo
degli studi sulla canzone popolare.
E ad essa ribatteva:
È bene rettificare a
questo riguardo, che gli studi sul canto gregoriano in Italia datano
dal Congresso di Arezzo del 1882, e che la riforma della musica
sacra venne iniziata praticamente sin dal 1884, quindi che i
primi, come l’altra, precedettero ogni movimento di restaurazione
nel campo degli antichi maestri organisti, cembalisti, monodisti,
ecc. e per logica deduzione che questa seconda restaurazione fu
non causa, ma conseguenza della già iniziata riforma della
musica sacra alla cui base stava tanto la resurrezione del canto
gregoriano quanto quella della polifonia vocale. Questo diciamo per
l’esattezza storica.
A proposito di tale scritto, Fedele
D’Amico17 in Nota ad un equivoco (“La Rassegna
Musicale”, a. XVI, n. 4, aprile 1943, pp. 117-19) fa rilevare che
Gian Francesco Malipiero, studente di composizione, aveva dovuto
“scoprire” da sé i veneziani del Cinque e Seicento perché aveva
avuto insegnanti che erano “volti tutti a una didattica tedesca”.
Infatti, “l’opera del Tebaldini era, in quegli anni, ancora
solitaria e osteggiata”, perciò chi non era suo allievo doveva
faticosamente andare incontro a un patrimonio nascosto sotto la
polvere dei secoli.
Tebaldini riteneva che potevano
coesistere l’amore per gli antichi e l’attaccamento al melodramma. E
questo spiega la sua amicizia e la stima per Verdi.
D’Amico conclude:
Nessuno ha voluto
disconoscere i meriti del Tebaldini né dei mondi a lui giustamente
cari. Egli ci parla del suo ideale; quello di cui oggi tanti – ma
alquanto in ritardo – si son fatti campioni e banditori. Perché in
ritardo? Solo perché nacquero in ritardo? […]
E invece proprio
l’avvento di questi “ritardatari”, proprio lo sviluppo e
l’accrescimento in tante e tante nuove direzioni di quell’ideale,
testimonia la bontà di quest’ideale. Proprio per il fatto che tanti
oggi ripetono e sviluppano in vario senso gl’impulsi avviati dal
Tebaldini, al Tebaldini possiamo oggi riconoscere il titolo di
precursore coraggioso e fecondo. […]
Come ebbe a dire Dioscuro18,
la vita di Tebaldini “fu tutta una battaglia di italianità”.
L’articolato concetto ne permeava tutta l’opera, supportata da
scritti di ‘propaganda’ su giornali e riviste, dall’attività di
insegnante, critico musicale, conferenziere. E, almeno in una certa
misura, l’ha trasmesso ai suoi discepoli, in primis al suo pupillo
Ildebrando Pizzetti. Lo dimostrano le riconoscenti ammissioni di
quest’ultimo, i tangibili echi dei suoi insegnamenti. Poi Pizzetti,
senza ignorare i canoni della migliore tradizione, ha sviluppato un
discorso originale, con indubbie qualità di compositore, critico e
poeta, facendo rinascere anche il dramma in musica, dando continuità
pure all’azione di Giuseppe Verdi. Per dirla con Fiamma Nicolodi19,
usò “l’antico come antidoto contro la decadenza e la corruzione
musicale del presente (generalmente l’opera post-verdiana e verista,
ma anche la musica tedesca)”.
Se tutto questo è vero, ne consegue
che era stato Tebaldini il principale artefice dell’italianità di
Pizzetti. Né si può sostenere che la collaborazione del musicista
col poeta Gabriele D’Annunzio (il più ‘musicale’ dei poeti italiani)
si sia basata su una comune matrice politica, piuttosto
sull’importanza che entrambi davano alla letteratura e alla
musicalità della parola. Peraltro, anche D’Annunzio era un
estimatore dei grandi del passato20.
Era inevitabile
che la formazione culturale, la vocazione spirituale e gli ideali di
Tebaldini; la sua didattica, l’azione teorica e pratica - espletata
con passione, competenza e senso civico, con ogni mezzo e in ogni
sede istituzionale o privata, per il recupero della nostra migliore
tradizione - in quel particolare momento trovassero in Pizzetti
stimoli fondamentali per la definizione della sua poetica
neoclassica nella continuità storica che sfociava, appunto, in una
rivitalizzazione dell’italianità. Lo provano inequivocabilmente i
caratteri della sua produzione e gli studiosi che ne hanno
analizzato la genesi. Tutti hanno riconosciuto la determinante
influenza degli speciali insegnamenti di Tebaldini sulle tendenze
culturali e morali del giovane che favorirà lo sviluppo delle sue
capacità musicali, critico-letterarie e poetiche, fino a far
emergere pienamente la sua personalità nei primi decenni del
Novecento.
Adelmo Damerini21,
nella conferenza su “Il Novecento italiano”, tenuta a Piacenza nel
febbraio 1932, pronunciò queste parole:
[…] Se di precursori
è lecito parlare, meglio che il gruppo martucciano che ho più sopra
escluso da questa funzione, si deve ricorrere più logicamente a due
musicisti e a un didatta precorritore dei tempi: cioè a Lorenzo
Perosi, a Ermanno Wolf-Ferrari e a Giovanni Tebaldini.
[…] Quanto a Giovanni
Tebaldini egli svolgeva già, fra il 1897 e il 1900, un’opera
oltremodo salutare come insegnante nelle mura del Conservatorio di
Parma di cui era direttore, restaurando lo studio del Canto
gregoriano, rivelandone le bellezze imperiture e la sua capacità a
fecondare lo spirito moderno, e richiamando gli allievi all’amore e
allo studio della polifonia classica.
Opera quella del
Tebaldini, tanto più apprezzabile in quanto esercitata in un
ambiente da cui egli ebbe incomprensione, derisione e dolori molti.
Ma il suo seme non fu gettato invano; dalla sua scuola di alti
insegnamenti doveva uscire – fra gli altri – Ildebrando Pizzetti,
che da quel momento doveva trarre in gran parte la elevatezza della
sua attività artistica, che per questa intonazione di alti spiriti,
sta al di sopra di tutta la produzione musicale italiana moderna e
forse non solo italiana. […]
Il
Maestro Enrico Magni Dufflocq22, che nel 1933 nella
“Storia della Musica”, edita dalla S.E.I. di Milano, aveva curato il
capitolo “La musica contemporanea”, spiegando perché “certa musica
del Pizzetti può suonare diversa dalle altre”, scriveva a Tebaldini
(Milano, 10 novembre 1942):
[…] E voi avete fatto
in Italia quello che lui [César Franck] ha fatto in Francia. Avete
preparato un’epoca! Non lo dico per adularvi. Lo dico per fermissima
convinzione. E non dubitate Maestro: intorno al falso mondo musicale
de’ giorni nostri il medesimo convincimento si fa strada ogni giorno
e conquide via via la massa.
Si sa, oggi, che
mentre il povero Martucci apriva la strada alle nuove idee con la
sua bacchetta, voi, non proprio solo, ma con una forza superiore a
quella di qualsiasi altro, preparavate nelle menti dei giovani la
resurrezione dello spirito antico, la capacità di comprendere il
genio del cinquecento e di muovere dai risultati che esso ebbe
conseguito, a nuove conquiste.
Tutti sappiamo che se il Pizzetti è diverso dai suoi contemporanei,
lo deve unicamente a Voi.
Questo mio tutti è forse un poco esagerato, ma soltanto
perché un poco prematuro.
Io non posso –
maestro caro – assicurarVi che i grandi riconoscimenti vi siano
assicurati Voi vivente: troppo il mondo è distratto da avvenimenti
superiori alla volontà dei buoni. Ma vi giuro che non mancherà. E vi
faccio solenne promessa che – per quanto potrò – io sarò sempre
apostolo del vostro valore e del vostro merito – permettetemi
l’aggettivo – franckiano, da maestro sommo e venerabile, da pioniere
misconosciuto e tormentato, ma trionfante. Perché – ve lo ripeto –
Voi siete un trionfatore: magari senza squilli e senza bandiere, ma
non meno vero e grande. […]
Nel volume
La crisi musicale italiana (1900-1930) (Ed. Hoepli,
Milano, 1939) Domenico De’ Paoli dice:
[pp.39-40] La moderna scienza
degli studi storico-musicali riscontra certamente degli errori in
quelle prime edizioni nostrane [improvvisazioni, approssimazioni,
talvolta confusioni], delle opere d’antichi maestri italiani,
tuttavia esse rivelarono [con le opere dei maestri dei secoli XV,
XVI e XVII] l’esistenza di una grande tradizione italiana
[dimenticata] e le qualità di questa tradizione. […]
Servirono ugualmente a taluni
insegnanti (non molti, purtroppo) per rivelare ai giovani musicisti
i capolavori italiani dei secoli d’oro, offrendo loro al
tempo stesso, il più efficace antidoto contro l’influenza
dell’accademismo tedesco, e contro la retorica del lirismo teatrale.
Occorre qui ricordare l’opera
di un Tebaldini a Parma e d’un Wolf-Ferrari a Venezia?
E più
innanzi:
[pp. 58-9] Dato l’indirizzo
degli studi musicali nei primi anni del nostro secolo, è molto
probabile che uno solo dei giovani d’allora potesse vantare una
conoscenza diretta ed abbastanza approfondita [- almeno quanto
lo permettevano le pubblicazioni di cui si poteva disporre -]
dell’opera dei compositori italiani dei secoli XV, XVI e XVII.
[(polifonisti vocali e madrigalisti)]; era Ildebrando Pizzetti
iniziato a tale studio (come a quello del canto
gregoriano) da Giovanni Tebaldini. Tutti gli altri musicisti
suoi coetanei avevano ricevuto una educazione musicale
prevalentemente filo-germanica.
E ancora:
[p. 62] nelle musiche per [La]
Nave si mostra l’assimilazione del canto gregoriano. Tale
assimilazione, in quel periodo, era più facile a Pizzetti che a
qualunque altro de’ suoi colleghi, perché – l’abbiamo già detto -
unico della sua generazione aveva trovato un maestro
(povero paria [aggiunta di Tebaldini]) che l’aveva iniziato per
tempo all’antica musica italiana ed al canto gregoriano; era il solo
dunque che all’insegnamento ufficiale filo-germanico potesse opporre
una reazione cosciente fondata sullo studio dei nostri
antichi maestri23.
Nel volume
Parma Teatrale Ottocentesca (Ed. Casanova, Parma, 1946) Mario
Ferrarini24 affermava:
Ora non è molto,
nella Tribuna di Roma, Mario Rinaldi sosteneva la tesi della
italianità di Pizzetti. Ed infatti, dall’uso delle tonalità
gregoriane nella armonizzazione; dalla ricca, fastosa polifonia
corale a fazioni indipendenti, al recitar cantando dei suoi
personaggi lirici, tutto, nel compositore parmense, induce a
rilevare come egli appaia il più audace rievocatore della genuina
tradizione italiana, quale la idearono i primi iniziatori del
melodramma, che lo stesso docente del Pizzetti, il Tebaldini – su
altra sponda – resuscitava dando nuova vita alla secentesca
Rappresentazione d’Anima e Corpo di E. de’ Cavalieri e ad
Euridice di Peri e Caccini. […]
E forse un giorno la
storia della musica Italiana ricorderà che dalla Scuola parmense,
negli ultimi anni del secolo XIX – pur combattuta e quasi soffocata
– si fece ascoltare una prima voce, additante la via tuttora incerta
di un rinnovamento dell’arte nostra, la quale intesa da uno solo e
da questo non più vox clamantis in deserto con largo respiro
diffusa, - riuscì a creare l’edifizio della nuova estetica: quella
che ormai viene riconosciuta, definita e ammirata: l’estetica
pizzettiana.
E il concetto di
italianità, diffuso da Tebaldini nel contesto culturale di quegli
anni, inculcato a Pizzetti che proseguì in quella direzione con
innovazioni e una propria identità, era passata, per il suo tramite,
anche in musicisti della generazione successiva. Un esempio per
tutti, quello del napoletano Mario Pilati25 che aveva
avuto intensi rapporti con Tebaldini e Pizzetti, di cui era profondo
estimatore.
____
Note
1. Per la figura e
l’opera del Maestro vedi, in particolare, le sezioni “Cronologia” e
“Biografia” di questo sito.
2. Florimo Francesco (San Giorgio Morgeto, 1800 – Napoli, 1888),
direttore dell’Archivio Musicale del Conservatorio di Napoli,
pubblicò opere storiografiche divenute molto note: La scuola
musicale di Napoli e i suoi Conservatori (1884), una biografia
di Bellini (1882)... Scrisse a Verdi per invitarlo ad assumere la
carica di direttore del Conservatorio di Napoli, ma il Maestro da
Genova, il 5 gennaio 1871, gli rispondeva dicendosi dispiaciuto di
non poter accettare: “[…] immaginate se io sarei fiero di occupare
quel posto dove sedettero fondatori di una scuola Alessandro
Scarlatti, e poscia Durante e Leo. Mi sarei fatta una gloria (né in
questo momento sarebbe un regresso di esercitare gli alunni a quegli
studii gravi e severi, e in così chiari, di quei primi padri. Avrei
voluto, per così dire, porre un piede sul passato e l’altro sul
presente e sull’avvenire… ché a me non fa paura la musica
dell’avvenire. Avrei detto ai giovani alunni: - Esercitatevi
nella fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e
fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al
voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre
bene le parti ed a modulare senz’affettazione. Studiate Palestrina,
e pochi suoi coetanei; saltate dopo a Marcello, e fermate la vostra
attenzione specialmente sui recitativi. Assistete a poche
rappresentazione delle opere moderne, senza lasciarvi affascinare né
dalle molte bellezze armoniche ed istrumentali, né dall’accordo di
settima diminuita, scoglio e rifugio di tutti noi, che non sappiamo
comporre quattro battute senza una mezza dozzina di queste settime.
Fatti questi studii, direi infine ai giovani: Ora mettetevi una mano
sul cuore: scrivete; e (ammessa l’organizzazione artistica) sarete
compositori… in ogni modo non aumenterete la turba degli imitatori e
degli
ammalati dell’epoca nostra, che cercano, cercano e (facendo
talvolta bene) non trovano mai. Nel canto avrei voluto pure gli
studii antichi uniti alla declamazione moderna.
Per
mettere in pratica queste poche massime, facili in apparenza,
bisognerebbe sorvegliare l’insegnamento con tanta assiduità, che
sarebbero pochi, per così dire, i dodici mesi dell’anno. Io che ho
casa, interessi, fortuna, tutto, tutto qui, domando a voi stesso,
come potrei farlo?
Vogliate dunque, caro Florimo, essere interprete del mio grandissimo
dispiacere presso i vostri colleghi ed i tanti musicisti della
vostra bella Napoli, se io non posso accettare questo invito tanto
onorevole per me. Auguro trovate un uomo, dotto soprattutto e severo
negli studii. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono
ammettere e sono belli talvolta in teatro, in conservatorio no!…
TORNATE ALL’ANTICO E SARA’ UN PROGRESSO.
[...].[Cesari Gaetano e Luzio Alessandro (a cura di), I Copialettere di Giuseppe Verdi, Commissione Esecutiva per le Onoranze a Giuseppe Verdi, Milano, 1913, pp. 232-33; “L’arte pianistica”, a. 1, n. 22, Napoli, 15 novembre 1914; Franco Abbiati,
Verdi, Ed. Ricordi, Milano, 1969, vol. III, pp. 355-56].
3. Giovanni Tebaldini,
Verdi e Wagner, in “Verdi. Studi e Memorie” di AA.VV., a cura
del Sindacato Nazionale Fascista Musicisti nel XL anniversario della
morte, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1941, pp. 157-75; anche in
Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini
(ricordi saggi testimonianze commenti), a cura di Anna Maria Novelli
& Luciano Marucci, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno, 2001, pp.
315-33.
4. Confalonieri Giulio
(Milano 1896 – ivi 1972), laureato in lettere, studiò musica e
compose l’opera
Rosaspina, brani da camera, commedie musicali e balletti.
Revisionò lavori di Scarlatti, Cimarosa e Cherubini. Come musicologo
pubblicò Bruciar le ali alla musica (Rizzoli, 1945) e una
Storia della Musica (Nuova Accademia, 1958), ristampata da
Sansoni/Accademia nel 1968. Ha collaborato a varie testate, tra cui
“7Giorni” (Rizzoli).
5. Tebaldini era il critico
musicale de “La Lega Lombarda”. La sua recensione, piuttosto
negativa, sulla
Messa di Fumagalli apparve nell’edizione del 10-11 febbraio
1886, nella rubrica “Arte ed Artisti”. Il Professore se ne risentì
al punto da farlo espellere dal Conservatorio.
6. La polemica tra Tebaldini
e il Professor Giuseppe Angelini di Venezia, a proposito della
musica sacra di Charles Gounod, si svolse nel giugno 1893 sulle
colonne de’ “La Lega Lombarda”, coinvolgendo anche altre testate tra
cui “La Scuola Veneta di Musica Sacra”, diretta dallo stesso
Tebaldini.
7.
Tebaldini tradusse in notazione moderna e/o ridusse
composizioni di maestri del XVI – XVII secolo dagli antichi codici
della Biblioteca Marciana di Venezia, dell’”Antoniana” di Padova,
del Conservatorio di Bologna, dell’Archivio della Santa Casa di
Loreto. Nel 1895 diede alle stampe il volume L’Archivio Musicale
della Cappella Antoniana in Padova e nel 1921 L’Archivio
Musicale della Cappella Lauretana.
8.
Nel luglio successivo Tebaldini fece
all’Ateneo di Brescia, sua città natale, una donazione “di circa 200
volumi tra opere musicali e libri riguardanti la musica, resi più
preziosi dalle dediche autografe rivolte al Maestro bresciano da
scrittori e musicisti, dei quali, taluni, di fama mondiale”, testi
autografi delle sue conferenze ed altri materiali relativi alla sua
attività.
9. La stampa locale e non si
interessò ampiamente del Concerto Storico: Da una platea
all’altra. Il Concerto Storico, “La Gazzetta di Venezia”, 20
marzo 1891; G. di Mugrensano, Il Concerto Storico, “La
Gazzetta di Venezia”, 21.3.1891; Munaro Toni, ...(dati mancanti),
“La Venezia”, 21.3.1891; Ravanello Oreste, Notizie e
corrispondenze - Venezia - Concerto Storico di Musica Veneziana del
Secolo XVII, “Musica sacra”, a. XV, n. 4, Milano, aprile 1891,
pp. 61-2; Righetti Aldo, Arte e Teatri – La musica a Venezia,
“L’Adriatico”, 20.3.1891; Id,
Arte e Teatri – Concerto storico veneziano di musica secentesca”,
“L’Adriatico”, 21.3.1891; P.[ietro] F.[austini], Concerto storico
di musica sacra al Liceo Benedetto Marcello - Notizie, “Gazzetta
Musicale di Milano”, a. XLVI, n. 13, 29.3.1891, pp. 216-17.
10. In “Musica d’oggi” del
luglio 1930 Adelmo Damerini, nell’articolo Il R. Conservatorio di
Musica “A. Boito“ in Parma, così si esprimeva:
Giovanni Tebaldini, il quale, valendosi della sua vasta cultura, del
suo squisito senso dell'arte, della operosità retta e ardente, fece
vibrare il Conservatorio di una vita nuova tutta protesa verso
problemi d'arte che dovevano poi formare l'ansia dei tempi
futuri.[…] nessun mezzo fu trascurato per infiammare gli animi degli
alunni dell'amore dell'arte e in ispecie dell'arte italiana.
Ancora, Mario Ferrarini in Parma Teatrale Ottocentesca
annotava:
Giovanni Tebaldini […] è stato, senza far torto ad alcuno, il più
completo e il più alacre fra quanti musicisti, pur di chiara fama,
furono a capo del nostro glorioso Istituto Musicale. Egli ebbe, come
direttore, per il carattere adamantino, per la serietà di indirizzo
negli studi e per la fermezza incrollabile nell’adempimento del
proprio dovere, qualità superiori. E furono anni d’oro per il
conservatorio quelli della sua appassionata direzione. Ma se a Parma
lo amavano gli alunni ed anche quella parte di professori artisti e
non mestieranti che era ligia al dovere, non fu dai più compreso ed
apprezzato come si meritava e come avrebbe voluto, sopra tutti,
Giuseppe Verdi. Egli era un’illustrazione degli studi di musica
sacra, egli lottava – e giustamente – per la risurrezione, nei
conservatorî, del Canto gregoriano, e invece un’ondata stupida di
anticlericalismo, che con l’arte nulla aveva a che vedere, inquinò,
in quel momento, l’indirizzo e lo studio più serio di quella
fondamentale musica del Palestrina e dei nostri compositori dei
secoli XV, XVI e XVII (polifonisti vocali e madrigalisti), che è
purissimo patrimonio italiano. Non fu compreso, e, per sventura sua
e del nostro Istituto, Verdi morì proprio in quegli anni. È certo
però che se Ildebrando Pizzetti eccelle oggi sugli altri musicisti
italiani, ed è così diverso dai suoi contemporanei, ciò si deve
sopratutto agli insegnamenti di Giovanni Tebaldini.
11.
Nel 1894, in “Musica Sacra” del 4 marzo, Giovanni Tebaldini
affermava: “Giuseppe Verdi, non è molto, scriveva ad Hans von Bülow,
invocando il ritorno all’arte di Palestrina in nome delle vere
tradizioni italiane… tali parole avranno confuso quelli che nel
celebre ritorniamo all’antico… non avevamo ravvisato che il
consiglio di ritornare addietro qualche diecina d’anni. Ma le parole
della nostra maggior gloria musicale devono esprimere a sufficienza
per i giovani. Nell’arte di Palestrina è riposto il segreto
dell’avvenire musicale d’Italia. Questo precetto dovrebbe essere
scolpito nelle aule dei nostri Conservatorii”.
12.
Zarlino Gioseffo (Chioggia, 1517 – Venezia, 1590), teorico
musicale e compositore. Nel 1541 si trasferì a Venezia, dove divenne
allievo di A. Willaert. Nel 1565 fu nominato maestro di Cappella in
San Marco, incarico che tenne fino alla morte. Cultore profondo di
studi teologici e umanistici in genere, maestro di grande prestigio,
buon compositore (pubblicò, fra l’altro, raccolte di mottetti e 13
madrigali in antologie varie), Z. è noto soprattutto come teorico.
Tre opere fondamentali testimoniano di questa sua attività:
Istitutioni harmoniche (1558), Dimostrationi harmoniche
(1571), Supplimenti musicali (1588).
13. Orefice Giacomo (Vicenza, 1865 –
Milano, 1922), compositore e pianista. Studiò al Liceo Musicale di
Bologna, diplomandosi nel 1885. Nel 1904 fondò a Milano la Società
degli Amici della Musica, di cui fu presidente per molti anni. Nel
1908-‘09 fu direttore artistico del Teatro Costanzi di Roma. Dal
1909 fu professore di composizione al Conservatorio di Milano, dove,
fra gli altri, ebbe come allievi V. De Sabata, M. Abbado, L. Rocca.
Collaboratore della R.I.M. e di altri periodici, fu dal 1920 anche
attivo come critico musicale de’ “Il Secolo” di Milano. Nel 1920
fondò la Scuola musicale di Como.
14. Lualdi Adriano (Larino, Campobasso,
1885 – Milano, 1971), compositore, direttore d’orchestra, critico.
Studiò prima a Roma, poi a Venezia con Wolf-Ferrari. Diplomatosi nel
1907, iniziò giovanissimo l’attività direttoriale, dedicandosi anche
alla composizione. Tra le sue opere per il teatro: Le furie di
Arlecchino (1915); Guerrin meschino (1920), Il diavolo
nel campanile (1925). Ha composto anche musiche corali, da
camera e per orchestra. Fu critico musicale di riviste e quotidiani
e tra i primi organizzatori del Festival di musica contemporanea a
Venezia.
15. Un nido di memorie...
[rievocazioni personali in sette puntate], “L’Italia”, Milano: I
La vecchia storia dimenticata appare ancora interessante...,10
giugno; II Una polemica contro organisti e organari...,
11 giugno; III Lotte musicali e politiche, 12
giugno; IV
Dalle “improvvisazioni” di Pavia all’adunanza di Soave, 13
giugno; V Fervore di riforme... e di polemiche,16
giugno; VI Sfilata dei più bei nomi, 17 giugno; VII
Primavera dell’arte sacra musicale, 20 giugno.
16. De’ Paoli Domenico (Valdagno,
Vicenza, 1894 – Roma, 1984), critico musicale. Tra i suoi saggi si
ricordano Stravinskij (1935), La crisi musicale italiana
(1939) e C. Monteverdi (1945). Di quest’ultimo pubblicò anche
Lettere, dediche e prefazioni (1973).
17. D’Amico Fedele (Roma, 1912 – ivi,
1990), musicologo, figlio del critico teatrale Silvio. Allievo di
Casella per composizione e pianoforte, fu attento, come critico,
alla produzione contemporanea. Docente all’Università di Roma, era
organizzatore di eventi culturali. Ha pubblicato monografie su
Mussorgskij (1942), Petrassi (1942) e la raccolta di saggi I casi
della musica (1962).
18.
Dioscuro è lo pseudonimo di un giornalista di Napoli ancora
non identificato, che scrisse l’articolo Alessandro Scarlatti,
“La Nuova Rivista”, Napoli, maggio-giugno 1919, pp. 20-3.
19. Nicolodi Fiamma (Roma, 1948 – vive a
Firenze), musicologa. Docente all’Università di Salerno e
attualmente in quella di Firenze, ha dedicato studi e ricerche alla
musica italiana del primo ‘900. Ha pubblicato, oltre a vari saggi, i
volumi Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia
(1982), Musica e musicisti nel ventennio fascista (1984).
Inoltre, ha curato l’edizione degli scritti di L. Dallapiccola,
Parole e musica (1980).
20.
In compagnia di Eleonora Duse, negli anni 1890-’94 in cui Tebaldini
dirigeva il coro della Cappella di San Marco a Venezia, il poeta era
spesso nelle prime file dei banchi della Basilica, rimanendo
estasiato dalle esecuzioni delle messe palestriniane e di altre
composizioni di autori della Scuola Veneta.
21. Damerini Adelmo (Carmignano
di Firenze, 1880 – Firenze, 1976), diplomato in composizione nel
1918, ha prodotto una Messa, molti Mottetti, Salmi, Inni e
Sequenze eseguiti spesso nella cattedrale di Pistoia. Ha scritto
articoli di critica su quotidiani come “La Nazione” e “Avanti!” e su
diverse riviste. Insegnò Storia della Musica al Conservatorio di
Palermo e fu bibliotecario di quella scuola, per passare poi, con lo
stesso incarico, nei Conservatori di Parma e Firenze. Ha scritto
spesso di Tebaldini e la prefazione al suo libro su Pizzetti del
1931.
22.
Magni Dufflocq Enrico, critico musicale, corrispondente ed
estimatore di Tebaldini.
23. Le sottolineature sono di
Tebaldini.
24.
Ferrarini Mario (Parma, 1874 – ivi,
1950), figlio del famoso direttore d’orchestra Giulio Cesare, fu
appassionato di lirica e raccoglitore di antiche memorie teatrali.
Svolse la professione di avvocato; fu anche giornalista e critico
d’arte. Aggregò una parte dei suoi scritti di argomento musicale in
Parma Teatrale Ottocentesca. Negli anni 1897-’98 fu
segretario e amministratore generale del Teatro Regio di Parma per
il quale organizzò apprezzate stagioni liriche e le rappresentazioni
per il Centenario Verdiano del 1913. Ha lasciato alla Biblioteca
Palatina e al Comune di Parma una mirabile raccolta storico-teatrale
con oltre seicento libretti d’opera, migliaia di manifesti, carteggi
e incisioni.
25.
Pilati Mario (Napoli, 1903 – ivi,
1938), studiò al Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli
diplomandosi in composizione. Docente prima al Conservatorio di
Cagliari, poi in quello di Milano, tornò nella sua città come
professore di contrappunto dell’Istituto in cui aveva studiato.
Passò, quindi, a Palermo. Fu anche compositore di brani per
orchestra, per pianoforte e di musica da camera. Come critico
musicale collaborò a quotidiani e periodici. Fu legato da profonda
amicizia e stima a Tebaldini, al quale nel 1929 dedicò un
significativo studio per il “Bollettino Bibliografico Musicale” (pp.
1-29).
a cura del
Centro Studi e Ricerche “Giovanni Tebaldini”
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