LA CULTURA VERDIANA NELL’INSEGNAMENTO DI TEBALDINI

di Raffaella Nardella*

 

 

Nel 1951, tra le personalità del mondo musicale che accolsero l’invito del Comitato Nazionale per le onoranze a Verdi nel cinquantenario della sua scomparsa, c’era ancora chi poteva dire di aver conosciuto di persona il grande Maestro. Testimone insostituibile, il penultimo fra i musicisti italiani (l’ultimo e trionfante rimarrà Toscanini), era Giovanni Tebaldini che aveva frequentato Verdi con una certa assiduità negli ultimi cinque anni della sua vita.

L’amicizia con il grande Maestro, documentata in un carteggio, lasciò un solco indelebile nell’animo di Tebaldini, il quale, nel corso della sua lunga vita, la rievocò più volte in saggi, conferenze, scritti commemorativi, quasi per celebrare un rito e confermare la sua integerrima fede verdiana.

Compositore, musicologo e storico, didatta e conferenziere, direttore del Conservatorio di Parma dal 1897 al 1901, Giovanni Tebaldini (1864-1952), è una figura di intellettuale che occupa un posto di tutto rispetto nell’ambito della musicologia, soprattutto perché seppe lottare con coraggio ed instancabile forza di volontà per il rinnovamento del costume musicale italiano e, in particolare, per la riforma della musica sacra, promuovendo la rivalutazione del canto gregoriano ed il recupero della polifonia classica, soprattutto di Palestrina. Storicamente significativa fu la sua opera di riscoperta di opere dei grandi del ‘500 e del ‘600 che trascrisse e ridusse in partiture moderne: memorabili furono le esecuzioni della Rappresentazione di Anima e di Corpo di Emilio de’ Cavalieri nel 1912 a Roma, dell’Euridice di Peri e Caccini nel 1916 a Milano e della Trilogia sacra tratta da Pierluigi da Palestrina, per le celebrazioni dantesche del 1921 a Ravenna. Nonostante l’amore per la musica antica, Tebaldini non ebbe nei confronti del melodramma un atteggiamento di rifiuto come altri musicisti e musicologi che esaltavano il nostro illustre passato musicale scagliando attacchi pregiudiziali a Verdi e al melodramma nazional-popolare romantico: in lui convivevano il culto dell’antico ed il rispetto e la difesa della tradizione operistica ottocentesca, della quale Verdi era considerato il nume tutelare. E nell’opera verdiana, nella moralità della vita e dell’arte del sommo Maestro trovò incitamento e sostegno alla lotta per i suoi alti ideali.

Un’aura sacrale circonda la figura di Verdi che emerge dai ricordi di Tebaldini, e il racconto dei loro incontri e delle loro conversazioni, pubblicato nel 19401, assume quasi contorni mitici. Con un’emozione che rivela la sopravvivenza di un culto, la narrazione comincia dagli anni giovanili, a Brescia, sua città natale, quando, nel lontano 1875, ancora ragazzo, assisteva alle prove dell’Aida nel Teatro Grande, e già apprezzava nell’irruente e solenne brano corale del 1° atto, Su dal Nilo al sacro lido, uno schietto carattere italiano, e a Milano, quando, arrivato da poco al Conservatorio2, “salava” le lezioni letterarie del pomeriggio, assieme ad altri compagni, per recarsi in via Filodrammatici e cercare di vedere, anche solo di lontano, il grande Maestro, nei giorni in cui alla Scala si dava il Don Carlos.

Le basi della loro amicizia furono poste nel 1894, quando Giulio Ricordi scrisse, per conto di Verdi, a Tebaldini, allora maestro della Cappella Marciana di Venezia, “per avere uno spunto, una indicazione di una canzone e danza popolare veneziana e greca” per le danze dell’edizione francese dell’Otello all’Opéra di Parigi3. L’anno seguente Tebaldini, che nel frattempo era passato alla direzione della Cappella Antoniana a Padova, su suggerimento di Camillo Boito, fratello di Arrigo e architetto nella celebre Basilica, inviò a Verdi un esemplare della sua pubblicazione L’archivio musicale della Cappella Antoniana in Padova che conteneva i suoi studi esplorativi e comparativi sui musicisti della Cappella. Tra le innumerevoli citazioni di pezzi sacri, oltre un centinaio appartenevano al Padre Antonio Vallotti (1697-1780), maestro di cappella e attivo compositore della Basilica del Santo per oltre 50 anni, e Verdi, che ammirava moltissimo questo musicista (da giovane si era esercitato su alcuni suoi temi), quando scoprì che fra quei pezzi c’era anche un Te Deum, scrisse subito a Tebaldini per averne una copia. Da tempo, infatti, da quando stava lavorando al suo Te Deum, Verdi, per trarne ispirazione, cercava questa cantica musicata, non di un autore del ‘500, ma di un’epoca in cui si poteva disporre di un’orchestra e di un’armonia abbastanza ricca. Il carteggio proseguì; i Te Deum spediti da Tebaldini non sciolsero i dubbi del Maestro (oltre a quello del Vallotti, ne furono inviati anche altri, uno del fiammingo Edgar Tinel e alcuni di autori contemporanei di Palestrina), ma la stima reciproca e l’amicizia tra Verdi e il giovane musicista erano ormai fondate.

In seguito, Tebaldini, avendo ricevuto elogi e incoraggiamenti sulla sua attività di maestro di cappella, inviò al Maestro alcune sue composizioni per organo premiate dalla Schola cantorum di Parigi e alcune sue liriche appena edite, dettate sui versi del Mistero del Poeta  di Fogazzaro, desideroso di avere un suo giudizio, pur sapendo che Verdi non amava pronunciarsi sui lavori altrui. Le impressioni furono lusinghiere, nonostante i rimproveri per “l’armonia tormentata” che, però,  stupirono molto Tebaldini, considerando che provenivano dall’autore del Falstaff.

Si arrivò all’estate del 1897. Il musicista bresciano si recò a Monaco, Ratisbona, dove da giovane aveva frequentato la Kirchenmusikschule, e a Bayreuth e Norimberga, dove aveva scoperto e studiato Wagner. “…le grandi pagine palestriniane della Papae Marcelli, le beethoveniane della IX Sinfonia, le wagneriane del Tristano, di Sigfried e di Parsifal mi avvincono, ma non arrivano a far tacere in cuor mio la secreta aspirazione all’incontro col creatore dell’ultimo atto di Otello…”4, confessò Tebaldini.

Fu, pertanto, al suo ritorno, nell’estate del 1897, che avvenne il primo dei numerosi incontri con Verdi a S. Agata, durante i quali si conversò sugli stessi temi che furono l’argomento principale della loro corrispondenza: l’andamento e il repertorio della Cappella di S. Antonio di Padova, Benedetto Marcello predecessore di Vallotti e Bach – fu rilevata la coincidenza tra il tema iniziale del primo salmo di Marcello Beatus vir con il soggetto della prima fuga del Clavicembalo ben temperato – e, naturalmente, Palestrina, il lapis angularis della musica italiana, soprattutto per la sua vocalità. L’argomento su cui Verdi insisteva in quelle conversazioni era, infatti, la necessità di cantare e di far cantare. Parlarono anche di autori moderni, di Bellini in particolare, ma mai di Wagner, forse perché Verdi sapeva che Tebaldini, per la sua formazione germanofila, apprezzava molto anche la musica wagneriana.

A volte erano ospiti alla villa di S. Agata Teresa Stolz, Arrigo Boito e Giulio Ricordi e anche su quegli incontri Tebaldini si sofferma nella sua narrazione, rivelando nella sua prosa amena curiosi aneddoti.

Gli incoraggiamenti di Verdi convinsero Tebaldini a presentarsi al concorso per il posto di direttore al Conservatorio di Parma, che riuscì a vincere, a soli 33 anni, succedendo a Giuseppe Gallignani passato al Conservatorio di Milano. Verdi si affrettò ad inviargli un telegramma di rallegramenti: “…E più mi rallegro con codesto Istituto musicale che avrà in Lei un artista che saprà vincere gli inevitabili ostacoli alle riforme di cui abbisogna…”. Non vi sono prove che Verdi abbia appoggiato la candidatura di Tebaldini, come aveva fatto precedentemente con Gallignani, ma certamente vedeva di buon occhio quel giovane musicista nella carica di direttore del prestigioso istituto, come si può capire dal telegramma e da una lettera del 12 ottobre 1897 (scritta due mesi prima della nomina) nella quale Verdi esprime chiaramente la sua stima a Tebaldini che avanzava riserve sul proprio conto: “…Troppo modesto Egr.o M° Tebaldini! Ella non è un oscuro! Ella è un valente ed uno di quelli che potrebbe rimettere sulla diritta via chi volesse deviare…”5.

Tebaldini aveva una larga visione degli studi musicali, e, appena insediatosi alla direzione del Conservatorio, capì subito di trovarsi in una realtà lontana dalle sue aspirazioni, in una scuola dove l’insegnamento della musica era completamente avulso da ogni riferimento storico ed estetico. Inoltre, dopo appena un anno dalla nomina, dovette fronteggiare la crisi sorta all’inizio del 1899 in  Conservatorio a causa di attriti tra i dirigenti dell’Istituto e di problemi di carattere amministrativo e finanziario che portarono alle dimissioni di Giovanni Mariotti, presidente del Conservatorio. Tebaldini formulò un programma che richiedeva la reintegrazione in bilancio di mancati finanziamenti ministeriali, ma, nonostante l’appoggio di Verdi che si rivolse al Ministro Baccelli, esso non fu approvato. Gli intenti di Tebaldini erano perfettamente allineati con quelli del grande Maestro, che grande interessamento aveva dimostrato nei confronti del Conservatorio e da tempo auspicava una maggiore serietà degli studi musicali, necessaria perché l’Istituto non diventasse “una semplice scuola di strumentisti”. Nella profonda convinzione che l’insegnamento della musica, atto essenzialmente formativo, doveva avvenire attraverso la riscoperta del nostro grande patrimonio musicale del passato, Tebaldini con grande coraggio introdusse come materie di insegnamento il canto gregoriano e la polifonia vocale, incontrando forti difficoltà in quell’ambiente ostile e insensibile. Allora in Conservatorio il ritorno alla musica antica era considerato un “perditempo” e “… parlare di canto gregoriano, di polifonia, di classici, di Palestrina, di Bach, di Beethoven, era come parlare arabo, perché in tutti noi c’era la inveterata credenza (acquisita in Conservatorio) che si potesse far della musica senza bisogno di studiare quelle anticaglie, musica da conciliare il sonno…”, come anni dopo ricorderà il giovane Ildebrando Pizzetti, allora alunno di composizione6. Nella sua lotta, più volte Tebaldini fece riferimento all’autorità e alla parola profetica di Verdi “nostra maggior gloria musicale “ che auspicava il ritorno all’arte di Palestrina in nome delle vere tradizioni italiane. Egli fece suo il famoso e troppo equivocato motto verdiano Torniamo all’antico della lettera a Florimo del 5.1.1871. Esso significava, secondo Tebaldini, che bisognava tornare alle pure sorgenti della vera lirica italiana, recuperare la tradizione palestriniana e le opere di Gabrieli, Peri, Caccini, Cavalli, Legrenzi, Lotti, Animuccia, Monteverdi, Frescobaldi, Carissimi, Galuppi e Tartini. “…Nell’arte di Palestrina è riposto il segreto dell’avvenire musicale d’Italia: è questo un precetto che dovrebbe essere scolpito nelle aule dei nostri conservatori…”7.

Palestrina, principe della polifonia del Rinascimento e genio eminentemente italiano, era per Verdi un modello da additare ai giovani compositori. “Esercitatevi nella fuga costantemente e tenacemente”, aveva infatti raccomandato il grande Maestro. Nel 1894, terzo centenario della morte di Palestrina, Giuseppe Gallignani, predecessore di Tebaldini nella direzione del Conservatorio, a Parma, organizzò le feste palestriniane e diede vita ad un congresso; nella chiesa di S. Giovanni ebbe luogo un grande concerto, durante il quale fu illuminata a giorno, grazie ad “un centinaio di lampade Edison” la cupola del Correggio, poiché in quell’anno cadeva anche il quarto centenario della nascita del pittore. Verdi non fu presente, ma approvò l’iniziativa che aveva permesso ancora una volta di aggiustare le nostre povere orecchie lacere dall’eccesso di dissonanze volute dai moderni”8

Nonostante l’appoggio di Verdi, le iniziative di Tebaldini, invece di essere riconosciute ed elogiate, furono avversate ed osteggiate accanitamente. Alle sue lezioni, però, si accostò con interesse il giovane Ildebrandro Pizzetti che fu riconoscente al suo maestro per tutta le vita per quei preziosi insegnamenti. “… Ella parlava a noi giovani delle melodie liturgiche latine, e ce le faceva conoscere ed ammirare, perché in esse è un meraviglioso tesoro di espressioni che un musicista non può ignorare senza vergogna…”9, ricorderà dopo tanti anni il musicista parmigiano che da Tebaldini assimilerà non solo il culto del gregoriano e della musica antica, ma anche un profondo spirito religioso che diventerà un elemento fondamentale della sua musica. Grande impressione suscitò nell’animo del giovane Pizzetti anche l’ascolto del canto gregoriano dei Benedettini dell’Abbazia di Torrechiara, dove Tebaldini condusse la classe di composizione per far conoscere ai suoi alunni la bellezza di quelle melodie.

Pizzetti, di cui sempre si mostrerà orgoglioso il suo maestro, sarà prima la speranza poi la certezza della nuova musica, che si affermerà nel segno della continuità della tradizione, rappresentata dal grande Maestro di Busseto. “Verdi e Pizzetti entrambi parmensi: l’omega di un periodo glorioso, l’alfa di una nuova epoca”10.

Tebaldini, nel periodo del suo direttorato a Parma, come a Venezia, alla Cappella Marciana e a Padova, alla Cappella Antoniana, mise in pratica il monito verdiano curando esecuzioni di musica antica. Nel giugno del 1898, organizzò una esercitazione in Conservatorio interamente dedicata al ‘700 italiano e accompagnata da profili storici e analisi critiche, nella quale furono eseguiti brani di G. B. Bassani, D. Scarlatti, D. Zipoli, B. Marcello, B. Vinaccesi, A. Lotti, G. Tartini, B. Galuppi. Musica italiana settecentesca fu eseguita anche nella seconda esercitazione di quell’anno (8 dicembre): di Cimarosa fu eseguita la sinfonia de Il matrimonio segreto diretta dal giovane Pizzetti, il quale, 40 anni dopo, la incluse più volte nei programmi dei suoi concerti, di Traetta un minuetto cantato, di Paisiello l’aria “Il mio ben”dalla Nina pazza per amore, di Boccherini un quintetto per archi, di Marcello frammenti del salmo 42° e di Päer la sinfonia di Ero e Leandro diretta dall’alunno Gustavo Campanini. L’esercitazione suscitò l’ammirazione di Verdi, sempre sensibile alla musica nazionale del passato, che inviò un telegramma al direttore: “Grazie, mi rallegro che in una esercitazione musicale di un conservatorio italiano si sia eseguita musica italiana. È una meraviglia!“. Quando, dopo oltre 40 anni, Tebaldini leggerà sul Corriere emiliano speditogli dall’avvocato Mario Ferrarini, suo amico e confidente, i programmi dei saggi degli allievi del Conservatorio, non potrà fare a meno di notare la differenza con quelli dati ai suoi tempi, quando “…Il Conservatorio di Parma era un vulcano…”, come si espresse l’alunno Del Campo. “…Al mio tempo codesti erano appena i programmi delle esercitazioni di classe. Quando passerò da Parma Le farò vedere in cosa consistessero i saggi di allora. Oggi neppure un brano di musica di assieme. Appena appena il duetto per soprano e baritono del Rigoletto Al mio ultimo saggio del 21.6.1901 scendevano in orchestra quaranta alunni e cantavano nel coro altrettante voci d’allievi, eseguendo due composizioni di gran mole di Pizzetti e due di Campanini…”11, confidò all’amico Ferrarini.

 Tebaldini durante il suo direttorato continuò a svolgere con impegno la sua attività di musicologo.

Nella settimana di Pasqua del 1898, per incarico della Rivista musicale italiana, si recò a Parigi per assistere alla prima esecuzione dei 4 pezzi sacri di Verdi, dati all’Opéra dalla Società dei concerti del Conservatorio di Parigi, giunta al suo 71° anno di vita. Verdi promise la sua presenza, ma all’ultimo momento fece sapere che non si sentiva in grado di partire. Arrigo Boito, Giuseppe Gallignani, direttore del Conservatorio di Milano e Tito Ricordi avevano preceduto Tebaldini. Questi, il sabato santo, si affrettò a scrivere a Mariotti per comunicargli il felice esito delle nuove composizioni di Verdi, quindi inviò alla Gazzetta di Parma il resoconto dettagliato del concerto. Dei Pezzi sacri  al Tebaldini il più importante sembrò il Te Deum che al pari dello Stabat Mater, considerava come cantata di carattere religioso non composizione sacra strettamente liturgica. “…La musica sacra di Verdi, nella assoluta diversità di stile che dalla Messa da requiem allo Stabat Mater ed al Te Deum l’informa e la vivifica, rispecchia le condizioni dell’arte religiosa in genere, dapprima non concepita che quale espressione drammatica, poscia più vicina, senza entrarvi risolutamente, allo spirito della restaurazione liturgica, quale si animò e visse attraverso la seconda metà del secolo XIX…”12, scriverà il musicologo nel 1913.

Tebaldini, che giudicava dal punto di vista del riformatore della musica sacra, si augurava che il Te Deum, la pagina originalmente destinata a dormire sotto il cuscino del letto di morte del suo autore, venisse eseguito a Parma, come scrisse sulla Gazzetta: “…Ho speranza che Parma città musicale per eccellenza, patria del sommo Maestro che ad 85 anni, con tanto impeto giovanile, si dedica col proprio genio a rendere invidiata l’arte italiana, ho speranza, ripeto, che non sia delle ultime ad ascoltare ed applaudire almeno il solenne Te Deum”13 Tebaldini fu incauto nell’usare quell’avverbio almeno ed infatti ciò irritò un po’ Verdi che si lamentò con Giulio Ricordi14 per quell’articolo scritto dal “fegatoso” Tebaldini. Ma i rapporti non furono turbati da questo incidente. Dell’esecuzione parigina dei Pezzi sacri il musicologo bresciano al suo ritorno parlò con Verdi, e quella fu l’occasione per il Maestro per rievocare le sorde opposizioni incontrate all’Opéra nel marzo del 1867 quando fu messo in scena il Don Carlos e il suo proposito, in seguito sconfessato, di non tornare più in quel teatro.

Alla fine del 1899, per il 60° anniversario di Oberto, la prima opera, il “peccato originale” di Verdi rappresentata alla Scala il 17 novembre 1839, Tebaldini organizzò un Concerto in Conservatorio con l’orchestra ed il coro degli allievi, e invitò a tenere una conferenza Giuseppe Albini, professore dell’Università di Bologna e grande oratore, il quale pronunciò un discorso di circostanza, ma molto espressivo e colorito, in cui accennò anche all’incontro tra Verdi e Carducci15.

 L’ultimo ricordo di Verdi risale all’autunno del 1900, tre mesi prima della sua morte. Tebaldini per festeggiare l’87° genetliaco del grande Maestro, d’accordo con il sindaco Mariotti, decise di condurre i suoi alunni a Busseto-Roncole-Sant’Agata, pensando agli stimoli e ai sentimenti positivi che  avrebbe suscitato nell’animo dei giovani un pellegrinaggio nei luoghi dove il Maestro era nato e aveva trascorso la giovinezza. Organizzò per la sera del 28 ottobre un concerto nel teatro di Busseto intitolato al Maestro, nel quale si esibì l’orchestra del Conservatorio composta da 50 esecutori, (di cui 40 allievi) tra cui Pizzetti che diresse il preludio dell’atto IV della Traviata, Gustavo Campanini che diresse la sinfonia della Giovanna d’Arco, e altri alunni che poi si affermarono in ambito concertistico quali Edoardo Fornarini, Franco Ghione e Giuseppe Del Campo. Anche Tebaldini diresse alcuni brani e pronunziò un discorso commemorativo. Il concerto, la visita alla casa natale del Maestro, alla chiesa dove da ragazzo suonava l'organo ed in particolare l’incontro nella sua villa a S. Agata furono descritti dal giovane Pizzetti nella GazzettaMmusicale di Milano e rievocati con profonda emozione, anche a distanza di molti anni. “A Busseto ci attendevano le autorità della piccola città; sui visi dei popolani si leggeva una gioia, una cordialità infinita. E noi attraversammo le vie felici di quell’affetto che pareva ci si volesse testimoniare, giacché eravamo là ad onorare Lui. …Ci dirigemmo verso S. Agata a crocchi, parlando di Lui; in tutti i discorsi una speranza fervida: poterlo vedere; perché molti di noi giovani, non l’avevano veduto mai. …Entrammo nel giardino silenzioso, dall’intonazione un poco triste e severa. Dal Maestro erano entrati il nostro Direttore, il Prefetto, il Sindaco di Parma e il Sindaco di Busseto. Io, con pochi altri, ero dietro la villa, agitato da un sentimento di ansia, di …non so che cosa. Dopo qualche tempo si schiuse una porta, uscirono i visitatori, e dietro loro, Lui… Verdi …Il Maestro incedeva maestosamente, con una meravigliosa semplicità di movimenti. Io non so dire cosa abbia sentito in quel momento; mi è parso di dover piangere, di dover gridare con tutte le mie forze un inno di ammirazione … e mi sono levato il cappello come obbedendo ad una forza superiore, come entrando in una chiesa. Vivessi cent’anni, non dimenticherò mai l’impressione di quei pochi momenti nei quali Egli era là, a pochi passi da me, sereno e solenne coi suoi bianchi capelli, con la sua bianca barba; una figura biblica, grandiosa, un’apparizione di sogno …Nella mia vita questa visita ha lasciato un’orma profonda ed io sento che i miei occhi guardano ora più lontano“16. Quando Tebaldini alcuni giorni dopo quella visita, il 12 novembre, tornò a S. Agata per ringraziare il Maestro per l’accoglienza ricevuta, gli parlerà di Pizzetti come di una certezza e Verdi gli affiderà un messaggio profetico: ”Ebbene, ditegli che guardi sempre innanzi e sempre più in alto, soprattutto che ricordi di essere italiano”17. Monito pienamente rispettato da Pizzetti che, fra i musicisti della generazione dell’’80, sarà l’unico a rimanere ancorato alla tradizione italiana, che non assumerà atteggiamenti antiromantici e che avrà per Verdi una venerazione incondizionata.

L’incontro del 12 novembre 1900 fra Tebaldini e Verdi fu l’ultimo. Il 27 dicembre Verdi rispose da Milano ai consueti auguri di buone feste inviati dal Direttore e dal personale insegnante del Conservatorio e un mese più tardi non era più. “… A Milano la mattina del 30 gennaio, nell’oscurità profonda, rotta da rade luci qua e là biancheggianti, che rendeva l’immagine di tutta la tristezza di un popolo: dalla piazza del Duomo, dalla Galleria, da piazza della Scala e giù giù per tutta la via Manzoni sino all’altezza dell’Hotel  Milan ove la salma gloriosa da tre giorni riposava; più giù ancora, verso i mediovali turriti portoni del Barbarossa, la folla ondeggiante, triste e silenziosa, camminava in raccoglimento. La bara portata a mano ed accompagnata da un solo sacerdote recante un cero acceso, entrò nella vicina chiesa di San Francesco di Paola. Ivi, fra il silenzio imponente, submissa voce, veniva impartita l’assoluzione di rito. Indi, trasportato sul modesto carro funebre trainato da due soli cavalli, senza alcun seguito di carrozze e senza fiori, la salma di Colui che dei riflessi della propria vita immortale sembrava, in quel momento, inondare i nostri cuori, si avviò lentamente verso il Cimitero Monumentale…”18.

Tebaldini era fra quella folla, solo, in veste privata. Poi, il 26 febbraio, per il trigesimo, partecipò ufficialmente, con la classe di composizione, alla traslazione delle salme del Maestro e della Strepponi. Toscanini diresse un coro di centinaia di voci che intonarono il Va’, pensiero che, la sera, fu ripetuto alla Scala dopo l’Elisir d’amore di Donizetti. Pochi giorni prima, al Teatro Regio, Parma aveva salutato Verdi con una commemorazione musicale cui avevano partecipato gli allievi del Conservatorio e nella quale erano state eseguite le sinfonie delle opere Oberto conte di S. Bonifacio, Nabucco, Giovanna d’Arco, Alzira, Luisa Miller, Aroldo, I Vespri Siciliani, La forza del destino, ed il coro dell’opera I Lombardi alla prima crociata: O Signor, che dal tetto natio.

In quegli stessi giorni era stato approvato un disegno di legge governativo per convertire in monumento nazionale la casa natale del Maestro a Roncole e per affidarne la custodia al Conservatorio e Tebaldini vi aderì prontamente così scrivendo al Ministro: “Compreso alto onore concesso Conservatorio Parma divenendo depositario storica casa di Roncole ove aperse gli occhi alla vita il genio musicale di G. Verdi, ringrazio Eccellenza Vostra d’aver caldeggiato autorevolmente proposta. Sarà nostro dovere circondare eloquente monumento di religiose assidue attenzioni, attingendo fede nelle tradizioni e nei destini dell’arte italiana”19.

Ma il progetto non andò in porto, perché Tebaldini, travolto da avvenimenti a lui sfavorevoli, lasciò Parma. Accusato “di minacciare la reputazione del Conservatorio”, fu sottoposto ad un’inchiesta parlamentare20 e, sebbene poi fosse stato scagionato da ogni accusa e reintegrato nelle sue funzioni, preferì lasciare Parma e andare a Loreto a dirigere la Cappella Musicale della Santa Casa, serbando nel cuore per tutta la vita, l’amarezza di questa  triste esperienza parmigiana. Fece in tempo a vedere inserite nel nuovo statuto del Conservatorio (maggio 1901) le modifiche da lui proposte, come l’obbligo, per la classe di composizione, del canto gregoriano e della polifonia vocale e delle esercitazioni di quartetto e d’orchestra per le altre classi.

Il musicista bresciano, attaccato dai giornali socialisti, in particolare LIdea, si era difeso sulla Gazzetta di Parma pubblicando pure le lettere di Verdi e di Boito, a testimonianza della stima di cui godeva come compositore. Il dolore di quell’esperienza fu mitigato negli anni dalla consapevolezza che il suo operato “…quantunque allora disconosciuto ed oltraggiato, si è rivelato poscia in tutta la sua consistenza quale patrimonio trascendente nell’opera di alunni che ebbi a me d’intorno, cominciando precisamente da te...” scrisse a Pizzetti oltre 40 anni dopo gli avvenimenti. “…Pizzetti, Frazzi, Barilli, … qualche cosa c’era dunque lì dentro quando si affermava che conducevo il Conservatorio alla rovina…”21, scrisse ricordando anche gli altri due allievi che ottennero riconoscimenti in campo musicale.

Stabilitosi a Loreto, Tebaldini continuò a svolgere la sua attività di musicista, musicologo e conferenziere, pubblicando saggi su diverse riviste – in particolare la Rivista musicale italiana -, partecipando attivamente al movimento ceciliano, adoperandosi per la riscoperta delle opere dei grandi del ‘500 e ‘600. Ed il nome e la figura di Verdi lo accompagnò per tutta la vita, come punto di riferimento, esempio di vita morale e insegnamento d’artista, e in tutte le occasioni celebrative Tebaldini non mancò di offrire il suo contributo con saggi e conferenze.

Nel 1913, nel centenario della nascita, scrisse per Nuova Antologia un saggio dal titolo Giuseppe Verdi nella musica sacra, nel quale analizzò l’evoluzione verdiana dalla Messa da requiem, non conciliabile con le esigenze della liturgia, allo Stabat Mater e al Te Deum, nei quali ravvisava una manifesta tendenza verso più severe e alte forme di espressione religiosa.

Nel 1926, invitato da Francesco Ciléa, tenne un discorso commemorativo, in occasione del XXV anniversario della morte di Verdi, nella gran Sala dei concerti del Conservatorio di musica S. Pietro a Majella di Napoli, dove l’anno precedente Tebaldini aveva promosso la cattedra di esegesi palestriniana. In questo discorso, che esaltava  “il Verdi che non passa”, “il Verdi, come Dante, poeta della terza Italia”, “il Verdi della trilogia popolare” risorto grazie all’opera di Toscanini, sommo protagonista della “Verdi-renaissance”, si soffermò in particolare sui due temi a lui cari: quello dell’italianità della nostra arte, “tormento e assillo” del grande di Busseto e quello del “Torniamo all’antico”.

Tebaldini fu presente anche nelle celebrazioni del 1941, nel quarantesimo della morte di Verdi, tornando nella città emiliana con il saggio Giuseppe Verdi: i suoi imitatori e i suoi critici, pubblicato su Aurea Parma che ricordò il grande Maestro dedicando i primi due fascicoli di quell’annata a studi verdiani. Scrisse inoltre per il Sindacato Musicisti, che pubblicò un ricco volume curato da Giuseppe Mulè, segretario del Sindacato nazionale fascista dei musicisti e Giorgio Nataletti, due elaborati saggi: La melodia verdiana e Verdi e Wagner dettati non solo dai consueti intenti glorificanti, ma anche dal proposito di un’analisi critica e storica.

Tebaldini, come Pizzetti, verdiano da sempre, orgoglioso della sua coerenza, della sua fede intatta negli anni, non tollerava l’ipocrisia di alcuni musicisti che, in quelle celebrazioni, si unirono al coro degli elogiatori di Verdi, dopo averlo aspramente criticato negli anni passati. Si scagliava, con l’irruenza propria del suo carattere, contro “…l’inondazione retorica che ha dilagato per il bel paese ad onore e gloria di Verdi…” e aggiungeva: “…Se Verdi tornasse al mondo saprebbe lui mettere a posto tanti de’ suoi adulatori, musicalmente analfabeti e spiritualmente da Lui sì lontani…”, condividendo le idee di Pizzetti che pure chiamò ipocriti coloro i quali “…dopo averne detto di tutti i colori contro Verdi, oggi si impancano a rivelatori del genio verdiano. Commedia umana!”22.

Alfredo Casella, che era il bersaglio principale di Tebaldini, aveva infatti pubblicato su L’homme libre dell’8 settembre 1913, quotidiano di George Clemenceau, dove teneva la rubrica musicale, un articolo su Verdi e l’opera italiana dell’Ottocento, esprimendo giudizi poco lusinghieri nei confronti del Maestro di Busseto definito “homme d’affaire” più che musicista. Questo giudizio che suscitò la reazione di Pizzetti23, fu poi completamente ribaltato da Casella nella sua autobiografia I segreti della giara (dove viene definito “completamente scemo”) nel 1941, anno in cui  anche altri  intellettuali, dopo una svolta di ravvedimento, stavano recuperando Verdi. Casella diede pertanto il suo contributo alle celebrazioni, diventando profeta del verbo verdiano in Italia, del Verdi del Falstaff, l’opera contrapposta a quelle giovanili come esempio di perfezione artistica.

Tebaldini e Pizzetti strenui difensori della tradizione italiana, rimasero invece estranei a quella grande svolta culturale che fu la cosiddetta “Renaissance verdiana” la quale, iniziata in Germania negli anni venti, stava dando finalmente i suoi frutti anche in Italia.

Nel 1949 Tebaldini poté offrire la sua testimonianza in merito al giudizio di Verdi sulla Cavalleria rusticana, rilevando alcune inesattezze e contraddizioni di due biografi di Mascagni che attribuivano al grande Maestro un giudizio negativo su quell’opera, dimenticando che Verdi compì il gran miracolo del Falstaff dopo il successo della Cavalleria. La versione autentica del giudizio verdiano, espresso al Tebaldini nell’estate del 1898, fu pubblicata da Gino Roncaglia su La Scala, la rivista di Franco Abbiati, nel 1950 e rivelava che Verdi, dopo una prima incertezza, commosso in particolare dal brano dell’”addio alla madre”, apprezzò molto l’opera24.

Nel cinquantenario della scomparsa di Verdi, Tebaldini, all’età di 87 anni, tenne la sua ultima, commovente conferenza a San Benedetto del Tronto, dove il musicologo trascorse gli ultimi anni. Pubblicò ancora, su La Scala i suoi ricordi verdiani, su un volume pubblicato dal Teatro alla Scala sotto gli auspici del Comitato nazionale per le onoranze a Verdi, un saggio dal titolo Fuori del teatro in cui analizzava le composizioni del Maestro non drammaturgiche e, su Verdiana, un saggio dal significativo titolo Incontro a Lui flectamus genua! che, con religioso rispetto, offriva a Verdi, simbolo della musica universale, un affettuoso ed estremo omaggio.  

 

Ringrazio per la preziosa collaborazione Luciano Marucci e la moglie Anna Maria Novelli, nipote di Giovanni Tebaldini.

 

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Note

 

1.     In un estratto: Giovanni Tebaldini, Ricordi verdiani, Tivoli, Arti Grafiche A. Chicca, 1940. I ricordi verdiani di Tebaldini furono pubblicati su diversi numeri di Rassegna Dorica, anno XI, n.1-6, gennaio-giugno 1940. I saggi furono anche riuniti.

 

2.  Tebaldini entrò nel 1883 nel Conservatorio di Milano. Ebbe come insegnanti di contrappunto e fuga e di composizione Angelo Panzini e Amilcare Ponchielli. Contemporaneamente frequentava le lezioni di Don Guerrino Amelli, il promotore della riforma della musica sacra in Italia, presso la scuola di S. Cecilia, e poté quindi imparare la paleografia musicale, il canto gregoriano e la polifonia vocale.

 

3.     I ritrovamenti di Tebaldini nella Biblioteca Marciana non soddisfecero Verdi, che il 10 luglio 1894 scrisse a Ricordi: “Che miseria quella musica mandatami da Tebaldini! … Ma tutti questi savants non ne sanno più di me! …”, ma in seguito  si rivolse ancora a lui avvalendosi della sua competenza liturgica . Vedi: Gustavo Marchesi, Giuseppe Verdi e il Conservatorio di Parma, Parma, Conservatorio “A. Boito”, 1976, p. 154.

 

4.        Tebaldini, primo dei numerosi italiani che in seguito la frequentarono, studiò alla Kirchenmusikschule di Ratisbona con Franz Haberl, famoso esegeta della polifonia vocale, fondatore della Società Palestrina e curatore degli opera omnia di quest’autore. Inoltre, grazie ad un premio del Wagnerverein e alla protezione dell’editrice Giovannina Lucca, si recò a Monaco di Baviera, Norimberga e Bayreuth, dove studiò le opere di Wagner.

 

5.         Per questa vicenda vedi: Gustavo Marchesi, op. cit., p.158.

6.        Gazzetta di Parma, 7.10.1901.

7.        Vedi: Giovanni Tebaldini, Torniamo all’antico in Musica Sacra, 4 marzo 1894.

8.        Vedi: Massimo Mila, Giuseppe Verdi, Bari, Laterza, 1958, p. 366.

9.        Vedi la dedica a Giovanni Tebaldini in: Ildebrando Pizzetti, La musica sacra dei Greci. Studio storico-critico, Roma, “Musica”, 1914.

 

10.      Parma, Biblioteca Civica, Legato Ferrarini, lettera del 27 gennaio 1946.

11.      Parma, Biblioteca Civica, Legato Ferrarini, lettera del 18 giugno 1939.

12.      Giovanni Tebaldini, Giuseppe Verdi nella musica sacra in Nuova Antologia, 1913, p. 572.

 

13.      Gazzetta di Parma, 9 aprile 1898.

14.      Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, 1959, p. 625.

15.      Il programma del concerto fu il seguente: 1) Sinfonia dell’opera Oberto conte di San Bonifacio; 2) Pace, pace mio Dio, melodia per Soprano dall’opera La forza del destino; 3) Quartetto per archi in mi minore; 4) Ave Maria volgarizzata da Dante; 5) Scena delle fate  dal Falstaff; 6) Mercé dilette amiche, siciliana per soprano nell’opera I vespri siciliani. Vedi: Giovanni Tebaldini, Ricordi verdiani, cit.,  p. 23.

 

16.      Gazzetta Musicale di Milano, n. 45, 8 novembre 1900. Nel suo volume Musicisti contemporanei, Milano, Treves, 1914, Pizzetti ricordava ancora la visita a S. Agata e il concerto al teatro di Busseto. Il racconto fu anche ripreso da Tebaldini nel suo volume Ildebrando Pizzetti nelle “memorie” di Giovanni Tebaldini, Parma, M. Fresching, 1931.

 

17.      Vedi: Giovanni Tebaldini, Ricordi verdiani, op. cit., p. 30.

18.      Vedi: Giovanni Tebaldini, Ricordi verdiani, op. cit.,  p. 31.

19.      Vedi: Gustavo Marchesi, op. cit., p. 163.

20.      Il clima socialista e anticlericale della Parma di quegli anni non tollerava a capo del Conservatorio un direttore come Tebaldini “amico dei preti e riformatore della musica sacra”, per ciò da un deputato socialista, Guido Albertelli, fu presentata alla Camera dei deputati un’interrogazione parlamentare al Ministro della Pubblica Istruzione Nasi sui “gravi inconvenienti che minacciano da tempo la reputazione e la vitalità del Regio Conservatorio di Parma”. Le novità introdotte da Tebaldini in Conservatorio per i suoi detrattori erano le accuse: cioè le spese eccessive per le esercitazioni, i concerti, gli ingressi ai teatri degli allievi, esercitazioni di assieme troppo frequenti e prolungate, acquisti ingiustificati per la biblioteca. Tutte novità che tendevano al miglior funzionamento dell’Istituto e alla preparazione degli allievi, come ebbero a constatare i due commissari nominati dal Ministero: Amintore Galli e Alberto Del Prato, cui era stata affidata l’inchiesta. Questa portò allo scioglimento completo da ogni accusa del Tebaldini che fu anche elogiato per il suo operato. Sulla vicenda vedi: Luigi Inzaghi, Notizie su Giovanni Tebaldini, in La musica a Milano, in Lombardia e oltre,  a cura di Sergio Martinotti, Milano, Vita e Pensiero, 2000, v. II.

 

21.       Parma, Biblioteca Palatina, Sezione musicale, Fondo Pizzetti, lettera 15 settembre 1938.

22.       Parma, Biblioteca Palatina, Sezione musicale, Fondo Pizzetti, lettere del 28.2.1941 e del 4.3.1941.

 

23.       Pizzetti replicò a Casella nell’articolo: Parole di un musicista italiano ai “confrères” d’oltralpe, in Il Marzocco, XVIII, n. 43, 1913.

 

24.       Gino Roncaglia, Tribunale di Busseto, in La Scala. Rivista dell’opera, n. 6, 15 aprile 1950.

 

[Sono state omesse “Bibliografia” e “Fonti archivistiche”]

(da “Aurea Parma”, a. LXXXV, fasc. I, Parma, gennaio-aprile 2001, pp. 66-82)

 

* Nardella Raffaella (S. Marco in Lamis, Foggia 1951 – vive e lavora a Parma) si è laureata in Filosofia presso l'Università degli Studi di Napoli e in Lettere moderne (indirizzo musicologico) presso l'Università degli Studi di Parma. Abilitata all'insegnamento nella Scuola media inferiore e superiore e diplomata in Paleografia, diplomatica e archivistica presso l'Archivio di Stato di Parma, dal 1979 opera nella Sezione musicale della Biblioteca Palatina. Si occupa di storia della musica a Parma, partecipando a convegni, mostre e pubblicando saggi su periodici locali.

 

 

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