VINCENT D’INDY [...] Sere sono, scendendo l’ampia scalea della Basilica Vaticana, mi si offriva appunto la grata sorpresa di incontrarmi con Vincent d’Indy1. Le grandi feste musicali celebratesi nel 1896 a Bilbao, mi procurarono il piacere di trascorrere alcuni giorni in amichevole dimestichezza coll’illustre autore di Fervoal. Là - nella capitale di Viscaya – ove in quei giorni dalla Francia erano altresì convenuti il Planté, il Guilmant, il Vidal, il Parès ed il Bordes; da Barcellona il Pedrell ed il Millet; da Madrid, Monasterio e Breton, si effettuarono manifestazioni d’arte popolare così grandiose da destare in me - sebbene non nuovo (dopo frequenti peregrinazioni attraverso la Germania meridionale) a tali celebrazioni di giubilo e di letizia spirituale – la più commovente impressione. Dai Madrigali antichi cantati nel Teatro da numerosi Orphèons, ai Mottetti sacri eseguiti alternativamente, alle Fughe di Bach, nella Chiesa; dal Preludio dei Maestri Cantori, squillante come fanfara eroica per le tube di centinaia d’esecutori nel gran Circo de toros alla V Sinfonia di Beethoven, interpretata da una mirabile orchestra, tutto mi parve in quei giorni bello, grandioso, solenne, commovente, istruttivo! [...] In quell’occasione mi fu dato intrattenermi frequentemente nella intellettuale compagnia di Vincent d’Indy e con lui discutere d’arte. Tali discussioni che si protrassero anche durante alcune gite da Elgoibar a Zumarraga, da San Sebastiano a Saint-Jean de Luz, da Hendaye a Pau – sotto il magnifico castello di Enrico IV - si rinnovarono due anni appresso allorquando, in una mia gita alla Tribune de St. Gervais a Parigi, ritrovai Vincent d’Indy al bureau della Schola Cantorum situata allora nella Rue Stanislas poco lungi da Saint-Sulpice, da Luxembourg e da Saint-Louis. E fin da allora compresi, non senza un po’ d’orgoglio, che il d’Indy si schierava risolutamente nelle file di coloro i quali alla restaurazione ed al rinnovamento nell’anima delle nuove generazioni della grande arte antica, hanno consacrato il proprio ardore, dedicata tutta la propria fede. L’incontro recente a Roma, ha portato di conseguenza una sua visita a Loreto. Per tal modo i nostri discorsi di allora, dopo anni di lavoro e di fatiche, hanno potuto ripetersi; ma certamente sotto un diverso punto di vista. Il d’Indy mi narrava d’essere riuscito a dare un vigoroso impulso alla sua così detta Schola Cantorum la quale però – con più precisione – non è che un proprio e vero Liceo musicale cui, meno che dall’Italia, accorrono alunni da ogni parte d’Europa e d’America. Questa dell’assenza d’una rappresentanza di italiani nella di lui scuola è cosa che lo stupisce; e potrebbe essere anche un buon indizio per noi, se realmente rivelasse fede assoluta nelle nostre forze intellettuali, e coscienza del nostro valore. Disgraziatamente invece non significa che indifferenza per tutto quanto, fuori d’Italia, si va facendo in favore della grande arte italiana. Perché se da noi ci si occupasse con altrettanto fervore – come avviene presso gli stranieri – di far rivivere capolavori rimasti sepolti ed ignorati; se pur si sapesse e volesse dare all’indirizzo didattico musicale quell’aspetto modestamente pratico che forma il fondamento dell’educazione artistica negli altri paesi, non ci sarebbe di che meravigliarsi, ma perchè si vuol tener conto veruno di quello che per l’arte italiana si va facendo all’estero con opera assidua e tenace, così la nostra presunzione – chiamiamola pure col suo nome – crea la nostra insufficienza. Vent’anni addietro il primo italiano [Giovanni Tebaldini] che oltrepassava la soglia della celebre Kirchenmusikschule di Ratisbona per istudiare de visu e de auditu un po’ di antica musica sacra italiana, si vedeva segnato a dito come se avesse commesso un delitto di lesa arte patria. Eppure, nessuna altra via d’uscita poteva offrirsi allora a chi fosse proposto di imparare a conoscere la grande arte di Palestrina e dei Gabrieli. Oggi apprendiamo che un musicista francese di gran nome, un compositore il quale è considerato come uno de’ più coraggiosi alfieri del movimento musicale modernista, si è dato a commentare e a chiosare, a svelare al gran pubblico parigino le bellezze racchiuse in quei melodrammi del Monteverde che la storia ci insegna essere stati eseguiti nelle Corti italiane e nei teatri più popolari per tutto il secolo XVII, con un fasto e una ricchezza sorprendenti e memorabili. Ed ecco come in Italia si è venuti a sapere – non dico dagli spettatori che frequentano i teatri o le sale di concerto – ma appena dalla gioventù studiosa dei Conservatori, dell’esistenza di simili capolavori offerti, ripetutamente nella loro forma originaria alla intellettualità dei più moderni ed evoluti ascoltatori d’oltr’Alpe. A questo proposito ricordo appunto d’essermi trovato a Parigi fra il pubblico del popolare Teatro Ambigu in un pomeriggio primaverile, quale spettatore, alla esecuzione di alcuni brani dell’oratorio La Figlia di Jefte del romano Carissimi eseguiti per cura della Schola Cantorum di S. Gervais: quella Schola che oggi si è ampliata divenendo l’istituto modello che dirige Vincent d’Indy. Non mi domando quale Teatro, quale Società di concerti, ma appena appena, quale Liceo o Conservatorio musicale saprebbe, in Italia, con le sole proprie forze, fare altrettanto proponendosi, con questo mezzo, non soltanto di istruire la giovane generazione dei musicisti che va crescendo ansiosa di elevazione estetica, ma pure di avviare il pubblico verso una meta di intellettualità e di spiritualità musicali, degne di popoli veramente evoluti! L’esperienza mi insegna che innanzi di raggiungere un simile ideale, cui dovrebbero concorrere molte energie fortificate da un bagaglio considerevole di abnegazione e di buona volontà – non facili a riscontrarsi in quell’elemento eterogeneo di docenti che costituiscono il corpo insegnante dei nostri istituti musicali – dovrà passare ancora gran tempo; perché coltura e fantasia, dottrina e facoltà creativa sono virtù le quali vengono tuttora considerate in perfetta antitesi fra di loro; lasciando aperto per tal modo il campo della coltura e della dottrina a quelli che si ritengono impotenti a produrre, ed il campo della fantasia e della creazione a coloro i quali potrebbero essere messi nella categoria degli impotenti e dei mestieranti. Ecco – a parer mio – in qual maniera si va perpetuando il fatale dissidio fra i due principali elementi che dovrebbero costituire il fondamento vitale dell’arte; elementi che per l’avvenire di essa debbono ancora – come ai bei tempi aurei – integrarsi indissolubilmente, se si vuole che il genio musicale di nostra razza riacquisti quel primato che tanto nel campo speculativo come in quello creativo, ebbe a formare nei secoli trascorsi, la gloria fulgente dell’Italia artistica. Questi i pensieri che nei giorni scorsi son venuto esponendo e discutendo con Vincent d’Indy nell’apprendere dalla sua voce lo scopo principale della di lui venuta in Italia come nel constatare quali siano i criteri artistici che guidano la sua mente eletta nella direzione della Schola che egli ha fondato a Parigi.[...] (da Giovanni Tebaldini, Per la rinascenza musicale. Conversazione con Vincent d’Indy, “Musica”, a. I, n. 6, Roma, 30 dicembre 1907) 1. d’Indy Vincent (Parigi, 1851 – ivi, 1931), abbandonati gli studi giuridici, frequentò il Conservatorio di Parigi con C. Franck. Maestro di cori e organista, nel 1896 fondò con Guilmant e altri una famosa Schola Cantorum. Entrò in contatto con i maggiori musicisti europei. Dal 1912 al 1929 insegnò direzione d’orchestra al Conservatorio di Parigi. Alla sua scuola si formarono numerosi compositori francesi del Novecento. È autore di sei opere teatrali, di musica vocale (sacra e profana) e di pezzi per pianoforte. Apprezzati il suo Cours de composition musicale in quattro volumi e i suoi studi su Franck, Beethoven e Wagner. Tebaldini lo conobbe nel 1896 ad un congresso di musica sacra a Bilbao. Quando ricevette i premi della Tribune de Saint Gervais di Parigi, d’Indy faceva parte della commissione. Ebbero sempre rapporti di amicizia e di lavoro.
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