LA CAPPELLA MUSICALE DI LORETO

 

La fase, che sta presentemente attraversando la cappella musicale della S. Casa, desta vivo interesse in quanti hanno a cuore la dignità ed il progresso dell’arte.

Non istituita, come comunemente si crede, da Costanzo Porta, ma da lui posta ed assicurata su solide basi, la cappella lauretana condusse vita prosperosa in ogni tempo, guadagnandosi nome d’una delle migliori d’Italia, anche nei periodi di generale decadenza. Se non che, per ciò che riguarda la qualità della musica del suo repertorio, essa dovette, naturalmente, sottostare alle medesime vicende per le quali passarono tutte le altre.

Dopo l’epoca aurea della musica sacra, un complesso di circostanze, che qui sarebbe troppo lungo e fuor di luogo enumerare ed esaminare, promossero da prima l’infiltramento e poi l’invasione del teatro nel tempio; per modo che al principio del settecento la vera fisionomia di questa musica era già svisata ed il gusto in gran parte corrotto. Scostandosi sempre più dallo stile severo e maestoso, veramente e propriamente polifonico, dei maestri della grande scuola palestriniana, i compositori finirono per dare alla musica sacra gli stessi caratteri della drammatica. Basterà qui per tutti citare gli Stabat del Pergolesi e del Rossini, le messe del Rossini e del Verdi, lavori certo sublimi per ispirazione e meravigliosi per fattura, ma di un carattere più adatto al concerto ed al teatro, anziché alle funzioni liturgiche.

L’esempio di questi sommi maestri fu, come sempre avviene, seguito dai minori, e l’Italia si vide ben presto inondata di musica sacra di tal fatta; non parlo poi dei mediocri, i quali profanarono addirittura i templi con le loro sciatte contraffazioni delle peggiori composizioni dei propri modelli.

Anche per le superbe volte della basilica lauretana, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, si udirono risuonare sempre più raramente le classiche polifonie dei compositori del cinquecento e del seicento, che diressero la sua cappella, quali il Porta, il Ferretti, lo Zoilo, il Cifra, il Ratti, il Bonetti, il De Grandis; poiché dal 1777 in poi, i suoi maestri – dal facile e fecondo operista Giambattista Borghi al potente e genialissimo ingegno di Luigi Vecchiotti – tutti, qual più qual meno, furono travolti dalla corrente.

Venne, com’era naturale, la reazione; ma questa si manifestò prima fuori d’Italia, quantunque essa nutrisse già nel suo seno, solitario sì ed incompreso, un insigne seguace delle nostre gloriose tradizioni, Jacopo Tomandini di Cividale del Friuli. In Italia il movimento di riforma partì dal settentrione verso il 1874; antesignano ne fu il benemerito padre Ambrogio Amelli, che l’iniziò al congresso cattolico di Venezia e lo proseguì con la fondazione del periodico “Musica Sacra”. Da Venezia la riforma si propagò, ma lentamente e a fatica, nel resto dell’Italia superiore ed in parte della centrale. Finalmente giunse anche la volta della nostra Loreto.

A metter mano all’ardua impresa fu chiamato fin dal 1902 il maestro Giovanni Tebaldini, bresciano, già da lungo tempo sulla breccia per questa nobile causa. Uno dei primi alunni italiani di quel vivaio di riformatori che è la Kirchenmusikschule di Ratisbona, da venti anni egli combatte con la stessa fede, con lo stesso entusiasmo da quando, nel 1885, propugnava la riforma dalle colonne del giornale del P. Amelli, a quando la metteva in pratica nelle cappelle di Venezia e di Padova, fieramente osteggiato, ma soddisfatto dall’approvazione di colui, che più tardi, salito al soglio pontificio col nome di Pio X, doveva con motu proprio imporla su le medesime basi.

A Loreto, dove poc’anzi qualche tentativo di riforma del suo predecessore, il maestro Roberto Amadei, galantuomo e musicista egregio, aveva dovuto cedere davanti alle barriere di potenti opposizioni, il Tebaldini ha dato prova ancora una volta di una energia e di una costanza, che sola può infondere la ferma fede nel trionfo del proprio ideale; e, forte della piena fiducia riposta in lui dal regio amministratore, comm. Lodrini, e della illuminata e generosa protezione del vescovo, mons. Ranuzzi, è riuscito a porre la cappella in grado da sostenere il confronto delle migliori d’Italia: ma in mezzo a quali e quanto ostinati contrasti!

Non rechi meraviglia che tanta resistenza incontri in Loreto la restaurazione della musica da chiesa; si pensi che quivi nessuna parola autorevole si levò mai, prima del 1895, a promuoverla. Ricordo che nel 1893, recatomi in quella città a far ricerca di materiale per il mio dizionario bio-bibliografico dei musicisti marchigiani, ebbi a notare che un inestimabile tesoro di musica, lasciata in eredità alla cappella da grandi maestri dei secoli XVI e XVII che la diressero, rimaneva abbandonata in archivio, mentre avrebbe dovuto formar la parte principale del repertorio. Un vecchio dilettante, al quale manifestai la mia meraviglia per l’ostracismo inflitto a quei luminari dell’arte sacra, mi rispose: “Caro signore, quella musica ha fatto ormai il suo tempo; esumarla adesso sarebbe un errore, perché non si adatterebbe più né agli esecutori, né al gusto popolare. Quelle note rotonde come l’o di Giotto, quei tempi da marcia funebre farebbero sfiatare i cantanti e dormir l’uditorio. E poi, le splendide voci, di cui può disporre la basilica, come potrebbero mettere in rilievo le loro incantevoli doti nella esecuzione di quei canti polifonici? Ah, se lei avesse potuto sentir la cappella, quando artisti del valore d’un Borioni, d’un Capponi e d’un Boccolini si trovavano riuniti nella interpretazione delle composizioni, ispirate e palpitanti di drammatica passione, del nostro grande Vecchiotti e sotto la direzione dell’autore!… Quella era musica! Che bellezza di voci, che  superba orchestra, qual magistero di esecuzione! Pareva di stare in teatro!”

Pareva di stare a teatro! Ecco qual era per i più (non solo in Loreto ma in quasi tutta Italia), ecco qual è tuttora per molti l’ideale della musica sacra!

Evidentemente l’eccellenza dei cantanti o, per meglio dire, il desiderio che ebbero i cantanti di eccellere, come contribuì grandemente alla decadenza della nostra opera seria, su lo scorcio del secolo XVIII, così fu non ultima causa perché il vero concetto della musica sacra venisse completamente falsato. Pian piano il popolo, allettato dai leoncini della virtuosità, non volle sentire neppure in chiesa altra musica che quella che di tale virtuosità sapeva giovarsi. “In genere –scriveva il maestro Vecchiotti nel XXII dei suoi Pensieri intorno all’arte e alla musica – non si va in chiesa se non per dilettare l’orecchio; e questo cagiona un grave imbarazzo ai maestri di musica religiosa”.

Ed i maestri per togliersi di imbarazzo portarono il teatro in chiesa, e ve lo conservarono sino a questi ultimi anni. Ora, è naturale che gente, da gran tempo abituata a siffatta musica, che di sacro non ha altro che il nome, non possa senza una lunga preparazione comprendere e gustare la vera musica da chiesa, che non blandisce i sensi né commuove i nervi, ma si dirige allo spirito, e coll’onda casta e soave delle sue melodie lo solleva alla contemplazione delle cose celesti.

Nel malagevole lavoro di restaurazione il Tebaldini ha tre valorosi cooperatori: i maestri Agostino Donini di Verolanova (Brescia) [già studente del Conservatorio di Milano], vice-direttore e maestro di canto, Ulisse Matthey di Torino [studiò nel Liceo Musicale di Torino, ma conseguì nel Conservatorio di Parma il diploma di organista], primo organista, e Luigi Ferrari Trecate di Alessandria [già allievo del Liceo Rossini di Pesaro ed autore di due opere, Fiorella e Galvina, l’una rappresentata a Pesaro, l’altra in Alessandria. Non ha che ventitré anni], organista aggiunto.

La scuola di canto corale, diretta da Donini con intelletto d’amore, ha già cominciato a dare splendidi risultati, come può rilevarsi anche dai programmi dei saggi annuali; solo è desiderabile che un maggior numero di alunni accorra a far tesoro di quella preziosa istruzione.

Il Matthey è un insigne esecutore, un musicista che vive dell’arte e per l’arte. In qualunque giorno si entri nella superba basilica, è il Bach che aleggia e risuona per le navate oin tutta la sua mistica solennità. Che importa se l’uditorio è scarso o numeroso, se ascolta con interesse o con indifferenza? L’artista, come se eseguisse per sola edificazione dell’animo suo, trascinato dalla potenza suggestiva di quelle note sublimi, profonde egualmente i tesori del suo squisito sentimento e della sua rara abilità tecnica.

Presentemente la cappella lauretana si compone di 32 voci (quantunque l’organico ne stabilisca 40): 9 soprani, 9 contralti, 6 tenori ed 8 bassi. Il suo servizio è molto più gravoso che quello di certe altre, sia per i maestri che per i cantori; ciò non ostante in quattro anni si è completamente rinnovato il repertorio, il quale, con una larghezza e con un eclettismo degni d’esser rilevati, accoglie insieme con le composizioni dei grandi antichi (come il Palestrina, l’Allegri, l’Anerio, il Cifra, il Porta, il Marenzio… il Lotti, il Borghi, Andrea Basily, il Pitoni, il Martini, ecc.) quelle dei più insigni fra i moderni (come il Tomadini, il Witt, ecc.) e tra i viventi (come il Perosi, F. Capocci, il Bossi, il Bottazzo, il Ravanello, il Mattioli, il Terrabugio, il Boezi, il Rheinberger, il Mitterer, il Goller, ecc.).

E tale è l’importanza artistica a cui ora è pervenuta questa insigne cappella, che il P. Amelli, il P. Ghignoni, i maestri Mascheroni e Coronaro, il maestro Goller, il direttore della cappella di Deggendorf (Baviera), il quale attinse in Loreto la prima ispirazione della ormai celebre messa in onore della B.V. Lauretana, persone tutte d’indiscutibile competenza in tal materia, dopo aver assistito ad alcune sue esecuzioni, manifestarono in termini entusiastici al maestro, al vice-direttore ed all’organista la loro ammirazione.

Ad onor del vero, convien dire che anche dalle varie città delle Marche, passati i primi momenti di diffidenza e di ribellione, si comincia a guardare con interesse ai progressi della cappella lauretana. Ad abbattere i pregiudizi, a confutare i sofismi e le speciose ragioni addotte dagli ignoranti e dagli interessati, a dimostrar che mèta della riforma è il ritorno al bello dell’arte sacra, valsero e varranno efficacemente le conferenze che lo stesso maestro Tebaldini ha tenuto e terrà in parecchi luoghi delle Marche.

Intanto già si veggono i primi benefici effetti dell’esempio e della propaganda. Nel seminario di Jesi, la prima città marchigiana che ha accolto con entusiasmo la riforma, la musica sacra si studia seriamente sotto la guida d’un abile ed operoso maestro, il Fiorentini di Staffolo. A Sinigaglia, il vescovo ha fatto costruire nella cattedrale un magnifico organo moderno, chiamandovi a suonarlo il maestro Galaverni del liceo di Pesaro, coll’incarico di riformare gradatamente la cappella. In Ancona l’opera solerte del rev. Bartolucci, organista del duomo, non trova l’appoggio che merita. A Fano, con tutto il buon volere del vescovo e del clero giovane, presentemente non è possibile tentare una seria riforma della cappella per mancanza di mezzi; intanto però il rev. Prof. Baiocchi si è accinto all’insegnamento del canto gregoriano con grande impegno e promettenti risultati. A Pesaro è stata aperta nel seminario una schola cantorum del prof. Piergiovanni, ma la riforma non è riuscita ancora a penetrare nel duomo. Dal liceo, invece – dove sin dal 1898, per opera del valentissimo maestro Cicognani, un altro alunno della scuola di Ratisbona, fu istituita una cattedra speciale di composizione di musica sacra – da parecchi anni escono abili organisti e compositori, iniziati ai sani principî dell’arte. Alla Vernia, in Urbania, a Bologna e perfino a Costantinopoli e a Gerusalemme i discepoli di Cicognani vanno oggi diffondendo la restaurazione della musica sacra. Tra qualche anno poi saranno manifesti i buoni effetti della scuola d’organo del maestro Matthey, il quale va facendo proseliti anche fra giovani che non possono regolarmente frequentar le sue lezioni. Da Ripatransone, da Treia e da altri luoghi delle Marche muovono a Loreto per ricevere istruzioni dal valoroso organista.

Tali risultati, ottenuti in sì breve tempo, danno diritto a sperare che non sia lontano il giorno in cui da tutte le principali chiese marchigiane saranno banditi i duetti, i terzetti, le arie e le cavatine, la musica frivola e sensuale, per accoglier quella sola che è atta a disporre l’animo del credente al raccoglimento ed alla preghiera. Ma per giungere a questo conviene – per decoro delle mie dilette Marche io mi auguro che avvenga – che tutta Loreto intellettuale (a questa parte della cittadinanza mi rivolgo, perché quella che ha interesse di convertir la basilica in una sala da concerto per nessuna ragione al mondo smetterà il suo contegno ostile) secondi ed incoraggi l’opera del maestro Tebaldini, l’infaticabile, coscienzioso, intelligentissimo artista, che si è proposto di far della storica cappella centro e scuola di vera musica sacra, faro luminoso che diffonda i suoi benefici raggi su l’intera regione, e da questa su tutte le altre parti d’Italia.

 

Giuseppe Radiciotti1

 

(da “Rivista Marchigiana Illustrata”, a. IV, n. 4, aprile 1907, pp. 145-49)

 

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1. Giuseppe Radiciotti (Jesi 1858 - Tivoli 1931), laureato in lettere, ha insegnato per anni al Liceo Classico di Tivoli, ma alla musicologia ha dedicato le sue migliori energie. La sua produzione di storico della musica gli ha permesso di conquistarsi un posto di prim’ordine. Scrisse importanti saggi soprattutto su musici marchigiani, quali Rossini e Pergolesi. Di quest’ultimo approntò la biografia, che riscosse il massimo favore da parte della critica italiana e straniera, e ridusse, per canto e pianoforte, l’opera Livietta e Tracollo. Pubblicò anche un Dizionario dei Musicisti Marchigiani.

 

 

 

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