Giuseppe Verdi nella memoria viva di Giovanni Tebaldini che lo conobbe

 

 

La sala del Circolo Cittadino continuava a riempirsi nonostante il cattivo tempo e il freddo insolito per questi luoghi. I sofà e le sedie allineati, le lampade tutte accese, il pianoforte con la tastiera scoperta sembravano ancor più accoglienti prendendosi da fuori dove il buio era sceso di colpo come in pieno inverno. La vita si rinsanguava nei sorrisi di un’oligarchia femminile leggermente eccitata, nei conciliaboli dei signori seri, nella disinvoltura oziosa e quasi cordiale della gente minuta. Una ragazza in verde, seduta in fondo alla sala, colpiva come uno smeraldo sul tono bruno degli impermeabili. Fuori le palme rabbrividivano ai rombi e ai tonfi della mareggiata, e lungo il molo i motopescherecci si dimenavano con balzi di paura. Dentro era la vita semplice e solo un po’ meno quotidiana del solito, fuori covava la notte: la notte che basta metterci di mezzo una porta per immaginarsela antica, distante.

Da questa notte sembrò staccarsi il vegliardo. Era un uomo piccolo non tanto curvo, quanto tirato in basso e accartocciato dalla pressione degli anni. Doveva averne molti, poi tutti seppero che erano ottantasette, dal momento che egli stesso li dichiarò. Questa sua prerogativa, unita all’altra di essere, lui e Toscanini, gli unici superstiti della cerchia di Verdi, sono il motivo ufficiale di una reputazione che il mondo d’oggi gli concede. L’altra ancora, quella che gli compete direttamente, il mondo d’oggi, distratto e ligio alla pubblicità, se l’è scordata. Ed è forse per questo che il vecchio, allorché spuntò sul palco fra una parte e l’altra del concerto di romanze, sembrava andarsene per i fatti suoi. Sembrava attaccato al filo di un suo discorso e ubbidire ai semafori dei suoi crocicchi, forse a braccetto di Aida che aveva appena cantato “Ritorna vincitor”, lui personaggio non già dell’opera ma della vita di Verdi. I suoi passetti cortissimi potevano essere attratti da una calamita sui binari di una stazioncina ancora invasa dal buio della notte. Poi si fermò, si girò verso la gente, e la sua figura prese forza ed anzi riuscì a risaltare con quella macchia straordinariamente nera dei capelli e dei sopraccigli, con quei gran baffi, anche fra le stature, vicino a lui imponenti, del compagno sindaco [Carlo Giorgini] e del dottor Bozzoni. In questa posa stette: fermo sui due piedi, il capo un po’ inghiottito dal petto e la fronte inchinata verso il basso, le mani intente a sistemare roba sul tavolo, fintanto che il sindaco non ebbe letto due cartelle. Gli occhi, a momenti, gli si risvegliavano di sotto in su con uno sguardo che era un miracolo di luminosa impazienza.

Quindi cominciò a raccontare. La sua voce era roca e grave, era umiliata dall’età ma rimaneva devota a una violenza tutt’altro che repressa. Gli riusciva, a tratti, di sciogliersi dai lacci e di martellare corde ricche di vibrazioni e di echi dell’antica vena polemica, di ritrovare il timbro di quella risolutezza che gli fece percorrere una via diritta in mezzo ai fuochi dell’incendio romantico: coll’alloro nel tascapane, ben ammucchiato, e non era nemmeno l’alloro suo ma quello degli altri. “Gli altri” ci confidò a quattr’occhi “hanno scritto la grande musica, io non ho fatto che studiarla”. Ma questo fa parte del taccuino di Giovanni Tebaldini pioniere, non di quello del musicista superstite che stava commemorando Verdi al Circolo di San Benedetto. Gli avevano richiesto il ruolo di personaggio della vita di Verdi: ubbidiva.

Non disse grandi cose, cioè di quelle capaci di dare ai biografi la chiave degli scrigni segreti, non entrò in merito ai problemi della critica e dell’estetica, e nemmeno parlò delle opere. Semplicemente limitò il suo racconto ai legami che la musica pretese fra loro due: Verdi e Tebaldini. L’inizio della relazione epistolare, gli incontri di persona, la descrizione vera e patetica dei funerali. E se per noi questa testimonianza fu come un periscopio puntato su un orizzonte magico per cui cogliemmo Verdi e il suo ambiente senza gli incerti dell’immaginazione, non meno prezioso fu il poter indovinare come, perché e quanto l’egoismo del genio concesse di sé, giusto all’apice della gloria, al giovane maestro di cappella.

Siamo nel 1895, Camillo Boito, fratello di Arrigo ed architetto, allora, della Basilica del Santo, suggerisce al giovane maestro di cappella di inviare a Verdi il suo nuovissimo volume sull’Archivio Antoniano. Verdi risponde ringraziando ed esprimendo il desiderio di conoscere de visu qualcuna delle composizioni elencate: gli interessano particolarmente i Te Deum del settecentista Padre Vallotti, sul cui Metodo di Contrappunto afferma di essersi esercitato in gioventù. Così s’iniziano in quell’anno, i rapporti fra Verdi e Tebaldini, ma se dalla corrispondenza si passò ai colloqui con una serie sempre più nutrita di incontri, vuol dire che l’attrazione era reciproca e che l’ammirazione del giovane era ricambiata dal vecchio genio notoriamente scontroso con una stima sorprendente ed insolita. Vuol dire che Verdi si era reso conto del valore della attività artistica, culturale e didattica del giovane maestro che, oltre a una produzione propria (per cui ci furono parole di lode ed anche qualche tiratina d’orecchie circa l’audacia di alcuni procedimenti), era già stato direttore della cappella di San Marco in Venezia ed aveva diretto una serie di Concerti Storici di cui il primo programma – si noti l’anno: 1891 – comprendeva musiche di Martinengo, Monteverdi, Rovetta, Cavalli, Rovettino, Bassani, Ziani e Legrenzi.

Verdi, che aveva ormai completata la collana dei suoi capolavori, dalla sommità dov’era giunto scrutava entro di sé e intorno a sé con una nuova acutezza, scarna e pacata. Ed era come se, avendo strizzato fino all’ultima goccia di passione anima e corpo, gli soccorresse infine l’essenza astratta di qualcosa che doveva sicuramente piacergli. Dopo di aver vuotato il sacco negli estremi canti dell’Otello e dopo di averlo rivoltato e scosso nell’estremo orgoglio del Falstaff, rimasto a mani vuote pensò con minore alterigia a certe cose che la prepotenza del genio, caparbiamente radicata in quel suo carattere di contadino emiliano, gli aveva fatto respingere come superflue. Così dovette sentirsi, a questo punto, più creatura e volger la mente alla sapienza di Dio e a quella dell’uomo con la umiltà del disarmo. E, se come codicillo del suo testamento d’artista figura – dopo l’alzata di spalle della burla famosa – la penitenza umile e pura del Te Deum, non è detto che in questa affermazione di religiosità non entri anche una più netta coscienza – chiamiamola pure – razziale. Che nella minaccia dell’offensiva wagneriana non abbia scorto l’inizio della frattura, le conseguenze funeste e il valore quindi di una difesa sulla linea della tradizione.

Fosse vivo oggi lui, Verdi uomo, come viva ma insidiata è la sua arte; fosse vivo oggi che Schoenberg è morto ma quella tale alchimia trova banchieri; fosse vivo oggi che non ci sono più i Tebaldini a imporre nei conservatori i dogmi del gregoriano e della polifonia ma spuntano i candidi a proporre quelli della dodecafonia, sarebbe il primo lui, Verdi, a rendere omaggio al vegliardo che vive qui a San Benedetto ignorato perfino da qualche diplomato in composizione e col libretto della pensione nel portafoglio.

Sarebbe il primo, Verdi, a dire grazie a un maestro che in piena febbre romantica indicò agli italiani il gusto della indagine storica e li indirizzò alle fonti del gregoriano, e li illuminò sulle origini nobili del melodramma, e li guidò nella produzione strumentale e vocale di interi secoli chiusi in soffitta dall’Ottocento, e li mise di fronte – specialmente – al fatto compiuto di una polifonia maestosa che trova il suo vertice in Palestrina. Non a caso nel 1925 il Conservatorio di Napoli offrì al Tebaldini, che era già stato a capo del Conservatorio di Parma ed era allora Maestro di cappella a Loreto, la cattedra di esegesi palestriniana.

“Noi non abbiamo fatto altro che indicare la via – ci confidò allorché andammo, dopo il suo discorso commemorativo, ad ossequiarlo – c’è ancora molto lavoro da fare”.

Sul palco stava finendo il concerto di romanze. Aveva cantato il tenore Galiè ed ora il soprano Lari Giovannetti Scipioni coglieva l’ultimo palpito, con indovinata espressione, alla Canzon del Salice. Diciamolo: eravamo commossi. Poi il maestro Antonio Certani5 che c’era stato di guida preziosa in questo aristocratico itinerario, fece l’atto di applaudire. Allora il vegliardo si scosse da quella sua realtà che lo aveva riportato in quel suo mondo per noi distante e notturno.

“Però Verdi – continuò – non giunse mai a Palestrina. Verdi si è fermato a Benedetto Marcello. È più teatrale”.   

                             Mario Medici1

 

(da “Corriere dell’Emilia”, Bologna, 17 ottobre 1951)

 

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1. Mario Medici (Modena 1913 – Roma 1990), compositore e critico musicale, nel 1935 si era diplomato in pianoforte e composizione presso il Conservatorio di Bologna nel quale è stato bibliotecario dal 1947 al 1954 per passare poi in quello di Parma fino al 1963. Ha diretto, dal 1960 al ’77, l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani. Ha collaborato a vari quotidiani, più assiduamente al “Giornale dell’Emilia” scrivendo molto di Verdi, Toscanini, Pizzetti. Dal 1968 al ‘70 è stato direttore artistico dell’Arena di Verona. Nel ‘78 ha ricevuto la laurea honoris causa del Centre College of Kentucky. Ha curato con Martello Conati l’edizione critica del Carteggio Verdi-Boito.

 

 

 

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