Il M. Tebaldini e la musica spirituale

 

 

I due “Concerti spirituali” ch’ebbero luogo a Bologna, nella chiesa di S. Giacomo Maggiore, sotto la geniale direzione del maestro Giovanni Tebaldini, meritano di essere ricordati più ampiamente di quanto facemmo nel passato numero dell’Orfeo. L’avvenimento musicale è stato tale che vale la pena di porre in luce il significato artistico e storico dei due grandi concerti bolognesi. Avvenimento singolare, indimenticabile, se si pensi che i due concerti, che erano a beneficio dei profughi veneti, diedero un incasso di oltre sedicimila lire.

Il maestro Tebaldini fu, dunque, bene ispirato a tentare questa nobile e ardua impresa e non meno nobili i criteri che indussero l’eminente e acclamato musicista a tentare, su varia scala, la resurrezione del “Concerto spirituale”.

Per una resurrezione

 

Quando Giovanni Tebaldini propose di fare qualche cosa per i profughi fratelli nostri che egli aveva ragione di amare e di prediligere avendo trascorso oltre otto anni di vita artistica fra Venezia e Padova, intramezzata da gite di propaganda in Friuli, in Carnia, nel Trentino, in Cadore, sull’Altopiano d’Asiago (a Tolmezzo con le piccole Scholae Cantorum dei villaggi limitrofi, eseguendo nel 1892 la messa Iste Confessor di Palestrina) ebbe d’innanzi a sé il miraggio della beneficenza fatta a mezzo dell’arte nostra purissima (checché ne pensino i catastrofici futuristi per assoluta ignoranza). Ma questo non era tutto. Giovanni Tebaldini sentì di poter chiamare attorno a sé quanti provavano in cuore il desiderio imperioso, il bisogno impellente di ripetere – attraverso le voci ideali dei secoli e di una fede immortale – le nostre speranze, le nostre aspirazioni. E volle invocare con Carissimi, con Marcello, con Tinel, con musica di sé stesso la suprema divina Forza allo scopo di infondere e ritrovare in noi stessi la virtù del sacrificio che ne conduca a quella esultanza cui tutti – con il trionfo del nostro diritto – aspiriamo incessantemente.

Trovandosi a Bologna nel mese di ottobre a studiare in quella Biblioteca, Tebaldini vi fece una breve sosta, quando, dopo la sorpresa di Caporetto arrivavano le prime squadre dei poveri profughi. In quella stessa sera Tebaldini leggeva gli annunci di Operette che si rappresentavano al Duse con il sottotitoli di boccaccesche scene. Provò un senso di ribellione. E concepì subito l’idea dei Concerti spirituali che sarebbe opportuno poter continuare e portare altrove.

Ma gl’intenti e i criteri che indussero Giovanni Tebaldini a questa nobile fatica e quest’opera patriottica, sono largamente illustrati nella Prefazione che il Tebaldini stesso fa precedere alle pagine dell’elegante opuscolo illustranti i vari pezzi dei due concerti.

Visione di altri tempi

 

La prefazione dice così:

“Nell’ora in cui le anime nostre si raccolgono trepidanti innanzi all’altare della fede per deprecare la salvezza del patrimonio ideale dell’Umanità, minacciata dalla violenza e dallo sterminio, il rivolgere pensieri ed affetti alla dolcissima e luminosa visione di Bontà e di Bellezza, la quale forma la tradizione istorica della stessa Italia nostra, e tale visione vivificare per le voci simboliche ed ammonitrici dell’Arte, parve – a chi pensa che i nostri cuori potessero, nel momento dell’attesa angosciosa, elevarsi non fuori ma sopra le miserie della vita combattuta – richiamo sì eloquente da meritare, da parte di ognuno, maggiori sforzi.

Le persone volenterose e buone, che per la realizzazione di un tale proposito vollero prodigare generosamente ingegno e volontà, intesero, non soltanto di procurare un po’ di bene a sollievo e conforto di tanti miseri fratelli dalla bufera dispersi fin nelle più remote contrade d’Italia, ma altresì di rammentare che diverse vie luminose dell’Istoria e dell’Arte – di quell’Arte che non è fine a sé stessa – possono e debbono ricondurre alla fonte purificatrice – per attingere energia, fermezza e nobiltà di propositi – quanti sentono che la redenzione morale e materiale della Patria dipende ancora e sempre dalla fede inconcussa nei destini dell’Umanità.

Da Bologna, e da un tempio secolare, ove l’arte sembra aver radunato quanto di più espressivo seppero maestri immortali fermare su tele superbe, nell’ora suprema le voci antiche e nell’anima occulta della Nazione si sono come ascose, a monito e conforto di chi crede, di chi sente e di chi spera, si ridestano immaginose ed eloquenti.

Ricordate, ci dicono esse che questa vita è un vento/che vola in un momento/e che del bene oprar frutto è l’onore, come ripete il simbolico personaggio del Tempo nella Rappresentazione di Anima e Corpo di E. de’ Cavalieri. Ed implora l’Ezechia di Carissimi la misericordia divina in quel Parce mihi Domine et miserere, fatto di angosce e di pianto. Così la voce del salmista si alza solenne ad invocare giustizia, clemenza e difesa contro l’iniquità dell’oppressore: Iudica me Deus, et discerne causam meam; e continua attraverso i salmi di Benedetto Marcello:

 

                                                                                               In mezzo ai tristi affanni

                                                                       Che cingonmi d’intorno

                                                                       A Te Signor clemente

                                                                       Alzo la mente e ‘l core,

 

per terminare nell’implorazione:

 

                                                                       Deh! mio Signor s’io ti pregai sinora

                                                                       Di me salvar

                                                                       Salva Israello ancora!

 

Le fonti spirituali ed estetiche di queste vocazioni ognuno facilmente adunque ravvisa. L’anima ascosa si affaccia alla realtà della vita per ripetere tutte le sue speranze e per rinnovare i suoi propositi di bene. Una lontana eco simbolica è stata pur intesa ed ascoltata: quella che dal Belgio, oggi straziato ma non vinto, si è vivificata alla luce ideale della vita italiana medievale. Il Canto della povertà, il Canto dell’amore nel San Francesco di Edgar Tinel ci parlano con tutto l’affetto e l’entusiasmo delle dolcezze della vita pura e semplice:

 

                                                                        Oh povertà, d’immenso amore

                                                                        Sei degna se t’amo il Signore!

 

E più innanzi:

 

                                                                        Solo un giorno il mondo vive

                                                                        Ma l’amor gli sopravive:

                                                                        Speme o fe’ vacillerà,

                                                                        Ma l’amore resterà!

 

Nel Convoglio Funebre del medesimo Oratorio di Tinel si raccolgono tutti questi sentimenti, tutti questi affetti, e parlano essi con voce di pianto. Presentiva forse l’autore che un giorno questa pagina sinfonica inspirata, lumeggiata dal riflesso del cielo umbro, avrebbe risuonato nel cuore degli italiani, come una elegia suprema, come un grido di amore, di dolore?

 

***

Da questa riflessione e da questi sentimenti noi ci movemmo per parlare a chi, con noi soffre e spera:

 

                                                                                 Amor mi mosse

                                                                                 E mi fa parlare!

 

L’amore illumini, vivifichi quanti si sentono animati dai medesimi affetti: Surge, propere, procede et regna!

 

Giovanni Tebaldini

 

[omesso il programma dei due Concerti]

 

 

Arte di sogno

 

Bologna, febbraio 1918

 

È stata una vera, una grande festa di arte e di umanità. Un “San Giacomo imponente”, solenne. La Bologna intellettuale, tutte le alte Autorità pubbliche, quelle dell’arte, della scienza, della critica; il nostro gran pubblico intelligente era in chiesa. Vi erano il Cardinale, il Comandante d’Armata ed il Prefetto.

Il maestro Tebaldini ha composto, organizzato e diretto un programma veramente bello e quasi interamente italiano. I musicisti italiani del cinque, sei e settecento, alcuni dei quali rappresentativi, hanno avuto il loro posto d’onore e di rivelazione. Al maestro Tebaldini deve andare col plauso più sincero ed unanime anche questo nobilissimo vanto e tutta la nostra gratitudine. Non certo per volgare passatismo io sostengo – ed io non credo affatto di essere sospetto – che si trova una profonda bellezza in queste musiche antiche d’Italia. La convinta ed accesa ammirazione che entra in noi davanti ad esse è tutta per il loro contenuto ideale e sentimentale.

Siamo in troppo confidenziale consuetudine con il decadentismo cerebrale e sensuale delle musiche d’oggi per non sentire il fascino irresistibile della purezza e della evanescenza di quelle sacre del passato. La loro caratteristica di tipo o definitoria è appunto una atmosfera di spiritualità, di misticismo e, in altri termini, di una tersa e polita castità. Siamo stati noi italiani in allora e non è stato più nessuno dopo allora. E la ragione precisa c’è: adesso l’arte si fa con della vita – troppo “senso eroico” e brutale - ; allora si faceva con del sogno; per il piacere, per la gioia sincera e sponeanta dell’anima.

È tempo perso che i miei amici di critica, in Italia, vadano tornando fuori delle teorie sottili, capziose o metafisiche o metapsichiche o trascendentali. Tutta roba da ridere. Parola di “gaianus”. Non c’è bisogno di dire delle sciocchezze con dell’ingegno per dimostrare a tutti i costi che si ha dell’ingegno.

Noi preferiamo dimostrarne col metterci a giudicare tutta questa tendenza rettorica severamente da più alta posizione. La vista spazia più largamente e l’aria è pura. Laggiù invece si finisce per soffocare.

Un fatto indiscutibile o, per lo meno, indistruttibile è in ciò: queste musiche danno un senso sicuro di riposo, di conforto, di elevazione, di miglioramento dello spirito. Detto questo è detto tutto. Il resto è materia per scrivere degli articoli, dei libri e altre cose noiose ed inutili.

Il programma ha avuto una esecuzione che in talune parti ha raggiunto il valore dell’eccezione. Alessandro Bonci ha avuto dal pubblico imponente una nuova corona d’alloro da aggiungere alla sua cospicua e copiosa collezione. Secondo me, egli ha raggiunto i termini essenziali del misticismo tenero e puro di queste musiche spirituali. E l’intonazione estetica della sua interpretazione è stata magnifica. Io spero che il maestro del bel canto non abbia fatto questo concerto per fare una parentesi della sua arte. È un genere che gli sta a perfezione. Deve dedicarvisi ancora e avrà contribuito, con un gesto di più, alla magnificazione della veramente grande musica italiana. La sig.na Maria Pedrazzi, dal bellissimo temperamento e dalla voce bellissima, cantò con viva espressione al basso Bettoni tributo di gran cuore l’ampia lode. La sig. Dora di Giovanni fece veramente onore alla sua scuola: il nostro Liceo Musicale. Molto bene disse la sua piccola parte il tenore Salbego.

I cori veramente degni sotto tutti i riguardi. Il maestro Venturi ha compiuto il solito miracolo: quando l’istruttore è lui si hanno delle esecuzioni magnifiche.

All’organo stava, con fine senso d’arte, il valentissimo Ferrari-Trecate. E così al cembalo il maestro Arrigoni.

Ottima l’orchestra.

Conclusione. Un concerto veramente bello: musica magnifica – si può proprio dire - ; successo fattosi a poco a poco, perché il pubblico in principio, preso dalla solennità sacra del luogo, non ha osato applaudire, è finito col diventare clamoroso. Chi vide mai il “San Giacomo” così pieno? L’opera compiuta dunque è stata bella di generosità, di bontà, di umanità. I bolognesi hanno teso le braccia ai profughi nobilissimi in modo commovente. Mentre… il quarto potere si inchina ammirato, ricorda che mercoledì alla stessa ora, il concerto si ripete. Un nuovo appuntamento; una nuova piena colossale: un altro gesto benedetto per i nostri fratelli italiani del Veneto eroico.

E così sia!

 

Gajanus1

 

(da “Orfeo”, a. IX, n. 3, Roma, 14 febbraio 1918)

 

_____

 

1. Gajanus, pseudonimo del giornalista Cesare Paglia, collaboratore del periodico “Orfeo” e del quotidiano “Il Resto del Carlino”.

 

 

 

back home