Un Maestro:
G i o v a n n i T e b a l d i n i
La frase è stata così sciupata a furia di usarla anche quando non ne era il caso, che ho lungamente esitato a servirmene e mi vi son deciso solo quando mi sono convinto che nessun’altra parola avrebbe valso a designare adeguatamente e in modo preciso l’alta figura morale di Giovanni Tebaldini. Direttore della Cappella di San Marco, di quella di Padova, direttore del Conservatorio Musicale di Parma e della Cappella di Loreto, insegnante di esegesi palestriniana al Conservatorio Musicale di Napoli, autore di pregiata musica liturgica, eminente critico musicale, conferenziere brillante e profondo. Ma quanti altri mai non hanno occupato posti altissimi, scritto musiche celebrate e articoli di buona critica e tenute conferenze anche bellissime, senza perciò poter dire di essi che sono stati dei maestri? Maestri, dico, nel senso vero e direi augusto della parola, maestri cioè di vita e di arte allo stesso tempo e in tutti i momenti? Non è vero che per essere maestri basta essere grandi artisti, uomini illustri per sapere. Per essere maestri nel senso completo della parola occorre unire alla sapienza l’aver lungamente sofferto la passione dell’arte e dell’onestà, sola passione, sola sofferenza che può conferire l’alta statura morale indispensabile a diventare “maestro”. E Giovanni Tebaldini l’ha sofferta per intiero la passione dell’arte, dell’onestà, della vita in una parola che sia degna di un artista. E come poteva essere altrimenti? Figlio di:
“Brescia la forte, Brescia la ferrea, Brescia leonessa d’Italia”
Nato tra il forgiare di schioppi per la patria libertà, perduta la mamma di nove anni e della quale ancor ha negli occhi la visione desolata del funerale; di sedici anni con pochi spiccioli in saccoccia, lascia la casa paterna e s’avvia per l’aspro cammino della vita, sorretto solo dalla fede in Dio e nell’Arte. Tutto deve fare da sé e tutto fa, a cominciare dalla propria cultura. E sono dirittura morale e artistica che lo spingono a combattere le prime battaglie per il canto gregoriano, per la vera musica liturgica prima, per la purificazione dell’ambiente scolastico poi. E sono queste battaglie che gli procurano dolori, disinganni, ferite, che ancor oggi sanguinano al ricordo. Ma sono pure questi dolori, questi disinganni, queste ferite che mente e cuore aperti all’arte e alla fede temprano in un tutto che si chiama morale e che fanno dell’uomo un maestro. Così è che Giovanni Tebaldini non ha bisogno di montare in cattedra per divenire maestro e non lo è ad ore fisse come tanti altri. Vissuto in epoca di giganti tra i quali grandeggiano Verdi e Wagner, allievo dell’autore di Gioconda a Milano, di Haberl e di Haller a Ratisbona, vissuto in dimestichezza con artisti come il Martucci e in fraternità con il più forte organista dell’epoca, Marco Enrico Bossi, ascoltare Giovanni Tebaldini nell’intimità è un sentirlo rivelarsi maestro nella piena luce di ciò che dovrebbe essere l’uomo. Nella inesauribile folla di ricordi ove, colorati dalla voce del narratore, passano, come vivi, grandi uomini del mondo politico, letterario, musicale, accanto a figure minori, spesso di folla anonima, rese interessanti da una osservazione, da un aneddoto, da una parola, ogni tanto l’amaro ricordo di una ingiustizia patita, la compiacenza di un trionfo conseguito, ridanno allo sguardo, al viso, alla persona tutta la vivacità degli anni più verdi. A settantasei anni sono sempre caldi gli entusiasmi e gli sdegni, i rossori e gl’impeti, le modestie e gli orgogli. Un problema d’arte o di critica, di estetica o di tecnica, un caso di coscienza e di onestà che muovano l’animo suo, e gli anni spariscono per lasciar posto al tumulto giovanile congiunto ormai alla pensosità del lungo sacerdozio dell’arte e della morale. Così è che i suoi giudizi non sono mai avventati, ma a ragion veduta, frutto di lunga esperienza e di solido ragionamento su la persona o il fatto artistico o morale, sempre spogli da una qualsiasi personale passione. Così è che talvolta gli ho udito giudicare ottimi come artisti, uomini che gli si erano dimostrati avversi ed ingiusti e giudicare artisti meschinissimi, uomini di coscienza intemerata che gli si erano dimostrati amici schietti. Così è, infine, che talvolta decisamente nega il suo parere su questioni d’arte che a lui sembra non conoscer tanto da poterci avanzare giudizio. Ed è udendo la sua conversazione amichevole sotto la quale cova vigile la fiamma dell’arte e la lucerna del sapere, sia che discorra, con originali e profonde osservazioni tecniche, estetiche e storiche, della scolastica del Padre Martini e di Riccardo Strauss, di Palestrina, di Giuseppe Verdi, che comprende il costante e deferente affetto che gli serbano i suoi antichi allievi di quarant’anni fa e l’esemplare, devoto amore figliare del suo illustre discepolo che seppe tradurre in fatto artistico, con un suo proprio marchio, l’insegnamento estetico del maestro. Ho detto insegnamento estetico, ma occorre dire insegnamento morale, insegnamento di vita. Ed è questo insegnamento che ha portato i suoi veri frutti in quanto si tratta non di una tradizione di una data tecnica o di una scuola di un dato stile, ma di un principio, di un germe che rivive nelle diverse forme di attività artistica di quanti del “maestro” hanno saputo trarre vital nutrimento. Bene ha, la Reale Accademia d’Italia, motivato il solenne encomio tributatogli nell’adunanza generale del 21 aprile ultimo scorso: “Un solenne Encomio si vuole tributare a Giovanni Tebaldini per la esemplare dedizione di tutta la sua vita allo studio, all’amore e al culto della musica”. “Dedizione” è la vera parola, cui urge aggiungere: dedizione anche al sacerdozio dell’insegnamento, poiché chi, come Giovanni Tebaldini, insegna in completa dedizione, spoglia se stesso per arricchire gli altri del sapere dell’arte del giusto e del bello, pago di aver assolto all’alta missione di maestro alla quale il destino lo volle assegnato.
Giulio Fara1
(da “Rassegna Dorica”, a. XII, n. 1, Roma, 25 gennaio 1941, pp. 2-4)
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1. Giulio Fara (Cagliari, 1880 - Pesaro, 1949), insegnante di solfeggio e armonia e poi di canto corale in scuole di Cagliari, fu compositore e apprezzato critico musicale, collaboratore di numerose testate. Dal 1923 insegnò estetica nel Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro e ne diresse la Biblioteca. Durante la seconda guerra mondiale, ha scrisse un romanzo ambientato in Sardegna, intitolato “Fango”. Ha condotto studi sulla musica popolare sarda, pubblicati nel 1997, a cura di G. N. Spanu, per la Ilisso Edizioni di Nuoro.
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