Cose a posto

 

[…] Nel campo delle resurrezioni musicali, dell’intuito profondo per i nostri tesori, della adorazione senza fini nascosti e dell’ostinata volontà di diffonderli, il caso di Giovanni Tebaldini si può chiamare più unico che raro.

Questo musicista oggi illustre, che fu a capo delle Cappelle di Venezia, di Padova e di Loreto, che diresse il Conservatorio di Parma ed ebbe là come allievo il Pizzetti, può dirsi il solo in Italia che abbia pagato con una specie di martirio la sua fanatica fede nell’antica musica nostra. Le vicende di lui fra il 1890 e il ‘900 assomigliano a un racconto di Defoe o di Verne. Allo stesso modo di Robinson e di Cyrus Smith, Tebaldini viene sbattuto su una scogliera deserta, e con pochi rottami di nave deve farsi una casa, provvedersi di armi, cercare soprattutto di non perire, ossia, per stare in paragone più esatto, di non lasciar perire la fiamma che lo brucia e ch’egli intende di comunicare anche agli altri.

In quegli anni lontani, ogni composizione non melodrammatica sembrava un attentato all’integrità nazionale. Ogni musica che facesse a meno di un soprano o tenore era considerata “musica di pensiero”; e siccome il “pensiero” era stato messo a quarantena in Germania, chi fosse sospetto di riportare in patria era una specie di untore, da bruciarsi vivo e non meritarsi nemmeno la Colonna Infame in memoria. Tebaldini, che per naturale destino s’era incontrato coi nostri grandi maestri del Cinque e Seicento, pensò che, almeno in Chiesa, fosse concesso di eseguire musica da chiesa. Così ragionando, quand’ebbe ottenuto un posto nella cattedrale di un certo paese, incominciò a suonare sull’organo la musica dei nostri vecchi organisti. Sorpresi da tanta audacia e feriti nel profondo amor proprio i fabbricieri gl’intimarono un ritorno alla Jone di Petrella. Proprio in chiesa, questo accidente voleva farli dormire.

Ma Tebaldini, figlio autentico della Leonessa d’Italia, non accettò nessuna intimazione di resa; ed, evacuata la piazza, con brillante sortita se ne andò a Ratisbona, proprio per fortificarsi ancor meglio in quel sacrario della pura musica sacra.

Tornato in patria e ricevuta la nomina in San Marco a Venezia, fu probabilmente il primo a far risentire Palestrina oltre le mura di San Pietro, e a restituire a codeste esecuzioni una fedeltà e un senso d’arte che anche in Roma esse avevano del tutto perduto. Per raggiungere questo, gli fu necessario incominciare da capo: provvedere alla ricostruzione dei testi, raccogliere una Schola cantorum e istruirla a un canto totalmente nuovo, vincer diffidenze e affrontare l’impreparazione del pubblico, risolvere i soliti problemi finanziari, catechizzare le turbe e ingoiare non pochi rifiuti. Ma lì, l’ombra della Biblioteca Marciana lo invitava a nuovi colpi di testa. Dormiva sotto la polvere il gran corpo glorioso della Scuola veneta nelle sue tre incarnazioni perfette di musica religiosa, di musica operistica e di musica istrumentale. Come un Sigfrido in giacca e pantaloni, Giovanni Tebaldini squassò le porte del recinto incantato e ne ritornò fuori con L’incoronazione di Poppea del Monteverdi, con brani d’opere del Cavalli e del Rovettino, dello Ziani e del Legrenzi, tutti da lui trascritti, realizzati nel basso e istrumentati se c’era bisogno di farlo. A questi autori aggiunse in poco tempo il Galuppi nella sua parte così poco nota di autor religioso, e quell’Antonio Lotti che, in pieno secolo XVIII, fu come un pianeta solitario e superbo, scappato fuor dall’orbita dell’aurea polifonia romana. Trasferito a Padova, passato da Padova a Parma, da Parma a Loreto, qualche volta cacciato come elemento pericoloso e apparso fugacemente in Roma e in altre città dell’Italia, Tebaldini si presentava sempre col suo corteo di morti gloriosi. E, impossibilitato a fissare le sue scoperte in istampa per mancanza dei famosi capitali e dei mecenati che glieli fornissero, doveva accontentarsi di sole esecuzioni, le quali, lui partito, svanivano nell’aria come tanti bei giorni di primavera. A un certo punto fu come un aedo che racchiudesse in sé stesso e nella sua mortale persona una somma strabocchevole di poesia imperitura.

I primi saggi importanti della nostra musica melodrammatica e dello spettacolo allegorico-religioso, le due Euridice di Peri e di Caccini e la Rappresentazione di anima e corpo di Emilio de’ Cavalieri, non sfuggirono, neppur esse, all’acuto sguardo di Tebaldini. Non ci fu autor nostro che egli non esplorasse e non facesse rivivere nell’esecuzione. Le “ultime terre” dei giorni nostri, i due Gabrieli e il Frescobaldi, il Sammartini e Alessandro Scarlatti, tutte, con estrema naturalezza, videro trenta o quarant’anni addietro la vela di questo Caboto della musica.

Ma, non ancor soddisfatto, Tebaldini, con pochi altri pionieri tra cui Lorenzo Perosi e l’abate Guerrino Amelli, risalì su su verso le zone incognite del Canto gregoriano; e a soli vent’anni di distanza, con mezzi mille volte inferiori a quelli dei “Ceciliani” tedeschi, poté rivelare anche a noi quella perfetta immagine di civiltà romana che è il “canto fermo”.

Fervore di studiosi, iniziative di ogni genere e concreto incoraggiamento del pubblico ci hanno oggi accomodati, confortevolmente, nell’uso della nostra grande musica classica. A tal punto, che il dispendio di essa è presso qualcuno, e qualche volta, una posa.

Ma noi dobbiamo sapere, dobbiamo far sapere come non più di quarant’anni addietro, eseguire musica antica in Italia fosse come rizzar barricate e come, su codeste barricate, Giovanni Tebaldini combattesse già quasi ogni battaglia possibile. Riportandone ferite, allora, assai più che non gloria.

Mentre l’insigne maestro, non piegato da una vita lunghissima, sta finendo di scrivere un volume su Palestrina [rimasto inedito] frutto di lunga consuetudine con le opere di Pierluigi, mi è parso utile di metter le cose un po’ a posto. La storia non mi piace; ma mi piace, ogni tanto, di fare lo storico.

 Giulio Confalonieri1

 

(da 7Giorni, a. IX, n. 26, Milano, 26 giugno 1943; anche in Bruciar le ali alla musica, con il titolo Omaggio a Tebaldini, Rizzoli, Milano, 1945, pp. 256-62)

 

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1. Giulio Confalonieri (Milano 1896 – ivi 1972), laureato in lettere, studiò musica e compose l’opera Rosaspina, brani da camera, commedie musicali e balletti. Revisionò lavori di Scarlatti, Cimarosa e Cherubini. Come musicologo pubblicò Bruciar le ali alla musica (Rizzoli, 1945) e una Storia della Musica (Nuova Accademia, 1958), ristampata da Sansoni/Accademia nel 1968. Ha collaborato a varie testate, tra cui “7Giorni” (Rizzoli).

 

 

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